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Le cose più strane e curiose nel mondo

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187 risposte a questa discussione

#41 Guest_deleted32173_*

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Inviato 28 giugno 2015 - 06:27

 AEREOPORTI GALLEGGIANTI

 

In 1920, il Sig. Edward Armstrong ha proposto il concetto del seadrome (aerodromo nel mare), come trampolini di lancio per gli aerei che volano attraverso gli oceani. A quel tempo, gli aerei non potevano percorrere lunghe distanze e avevano bisogno di rifornimento. Nel 1943, il US Navy Civil Engineers Corps ha costruito un campo di volo galleggiante (1810 ft x 272 ft) composto da 10.920 corpi galleggiante. Si dispone di una pista di volo e di un parcheggio. Tuttavia, l'entusiasmo per la costruzione di questi aeroporti galleggianti è stato smorzato dal straordinario volo senza scala di Charles Lindbergh da New York a Parigi nel 1927.


In tempi più recenti, è sorto un altro problema. Il costo dei terreni nei grandi città e' aumentato notevolmente, e gli urbanisti prendono in considerazione la possibilità d'utilizzare le acque costiere per gli sviluppi urbani compreso la costruzione d'aeroporti galleggianti. Come il mare e la terra vicino al bordo dell'acqua è generalmente piatta, atterraggi e decolli degli aerei sono più sicuri. Per questo, lo stato di Canada ha un eliporto galleggiante in una piccola baia in Vancouver. Grazie all'idea del galleggiamento l'intenso traffico in questo eliporto diventa piu comodo, e meno rumoroso.

Il Giappone ha fatto dei grandi progressi con la costruzione di un grande aeroporto galleggiante nel mare. L'aeroporto di "Kansai International" a Osaka e' un esempio di un aeroporto costruito in mare, sebbene su un'isola artificiale. La prima pista galleggiante è il modello di prova lunga un km, costruita nella baia di Tokyo, nel 1998 (vedi fig. 48). Questa pista galleggiante è stata premiata nel libro Guinness dei record nel 1999, la più grande isola galleggiante artificiale nel mondo. Gli studi sul modello di prova includono la ricerca di strutture ed attrezzature per l'aeroporto galleggiante, lo sviluppo della tecnologia di simulazione delle funzioni aeroportuali, strumenti per l'atterraggio, prove d'atterraggio e decollo su una pista galleggiante, effetti sull'ambiente e la verifica delle tecnologie di costruzione di un aeroporto galleggiante.Tale struttura galleggiante è un precursore di una pista galleggiante di un 3,6 km, che si aggiunge alle strutture aeroportuali di Haneda (vedi fig. 49) (Watanabi, 2004).

 

Fig.48.JPG

Fig. 48 L'aeroporto galleggiante nella baia di Tokyo, in Giappone.

 

Fig.49.JPG

Fig. 49 La proposta galleggiante, una pista galleggiante per l'aeroporto di  Tokyo (Haneda).
 


L'Ufficio di Ricerca Navale in Stati Uniti, ha condotto dei studi sulla fattibilità tecnica e verifica dei costi di costruzione di una base mobile in mare aperto. La base è semovente, modulare, piattaforma galleggianteche puo essere assemblata in lunghezze dell'ordine di un miglio, per fornire il supporto logistico alle operazioni militari degli Stati Uniti in cui le basi fisse non sono disponibili. Un giorno, forse si vederanno queste enormi basi mobili negli oceani nel prossimo futuro (Taylor 2003).

 

 

 

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#42 Guest_deleted32173_*

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Inviato 01 luglio 2015 - 02:22

I dieci animali con la vita più lunga

1^ posizione
medusa_immortale.jpg
Medusa Immortale

Massima età registrata: INFINITO

Non sono ancora stati ritrovati dati che possano far pensare al fatto che la medusa immortale possa morire.

Studi condotti in laboratorio hanno infatti dimostrato che la medusa immortale è l'unica a poter regredire allo stato di polipo passando dunque, a seconda delle condizioni ambientali, dalla piena maturità sessuale ad uno stato precedente il che, visto con gli occhi umani, piò essere considerato una sorta di ringiovanimento.

2^ posizione
Spugna_antartica.jpg
Spugna Antartica

Massima età registrata: 1550 Anni

Non sarà un animale con zampe, muso e coda, ma sempre di animale si tratta.

3^ posizione
vongola_oceanica.jpg
Vongola Oceanica

Massima età registrata: 507 Anni

Rimaniamo in acqua. Con poco più di mezzo millennio di vita sitmata chiude il podio una vongola.

4^ posizione
tartaruga%20gigante.jpg
Tartaruga Gigante

Massima età registrata: 255 Anni

Le tanto note tartarughe giganti sono decisamente meno longeve se paragonate agli animali del podio. La più vecchia ha comunque superato i 250 anni!

5^ posizione
koicarp.jpg
Carpa Koi

Massima età registrata: 226 Anni

Continuando la discesa non ci discostiamo minimamente dall'ambiente acquatico e, dopo spugne, vongole e tartarughe troviamo una carpa da record appartenente al gruppo delle Koi. La più vecchia aveva anche un nome, Hanako, ed è morta nel 1977

 
6^ posizione
balena.jpg
Balena della Groenlandia

Massima età registrata: 211 Anni

Continuiamo con gli animali marini anche se questo è il primo, e dunque più longevo, mammifero!

7^ posizione
RiccioRossoBig.jpg
Riccio di mare Rosso

Massima età registrata: 200 Anni

Il riccio rosso più longevo ha avuto una vita esattamente pari a 200 anni.

8^ posizione
800px-Nephrops_norvegicus.jpg
Aragosta

Massima età registrata: 140 Anni

Non volendo abbandonare l'acqua troviamo, in ottava posizione, l'Aragosta con una vita non troppo superiore a quella massima dell'uomo!

9^ posizione
Jeanne-Calment-1996.jpg
Uomo

Massima età registrata: 122 Anni

Citato nella ottava posizione, l'Uomo riesce ad entrare in questa topten, essendo il nono animale più longevo. L'età massima registrata è stata quella di Jeanne Calment, pari a 122 anni.

10^ posizione
tautara.jpg
Tauatara

Massima età registrata: 100 Anni

E' il rettile vivente più antico, sebbene, come abbiamo visto, non il più longevo.

Il suo nome deriva dal maori ed è una specie di iguana che vive in Nuova Zelanda.

 

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#43 Guest_deleted32173_*

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Inviato 03 luglio 2015 - 04:03

Ferro da stiro

800px-Ferrodepassar.jpg

Il primo attrezzo assimilabile ad un ferro da stiro risale all'epoca Han (206 a.C. – 221 d.C.) e consisteva in un recipiente di bronzo destinato a contenere braci incandescenti e provvisto di un manico di legno. I contenitori erano spesso decorati in modo molto accurato e il manico, in legno nei ferri più semplici, in caso di ferri da stiro di famiglie nobili era in avorio.
Per stirare i romani solevano scaldare piastre di bronzo provviste di manico e passarle sul tessuto.


Fino al medioevo non si hanno evoluzioni, risalgono al 1200 dei ferri fatti in ferro battuto e solo un secolo dopo si giunge ai ferri ottenuti dalla fusione del metallo con forme più funzionali. Nel XIX secolo si hanno alcune innovazioni nella forma e nei materiali ma i ferri venivano ancora scaldati in forno e poi usati rapidamente spesso sporcando il tessuto di cenere. La maggior parte dei ferri da stiro del XX secolo erano costituiti da un contenitore nel quale venivano poste delle braci di carbone che periodicamente dovevano essere alimentate per mezzo di un soffietto. Il primo di essi venne prodotto da Isaac Wilkinson nel 1737.
Il primo ferro da stiro con piastra scaldata elettricamente viene brevettato nel 1891 mentre risale al 1926 la nascita del ferro a vapore
.

 

 

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#44 Guest_deleted32173_*

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Inviato 04 luglio 2015 - 01:25

Ago da cucito

800px-Needles_%28for_sewing%29.jpg

L'ago più semplice si può ricavare da una spina di agave, tagliando la spina terminale della foglia solo parzialmente, in modo che le rimangano attaccate alcune fibre, si ottiene l'accoppiata ago (la spina) e filo (le fibre della foglia) con cui si può fare una cucitura grossolana. I primi aghi di cui si ha notizia erano realizzati in osso o legno, nell'antichità erano in bronzo, gli aghi moderni sono realizzati in acciaio placcato.

Gli aghi d'acciaio furono introdotti in Europa dagli Arabi e nel 1370 si fabbricavano a Norimberga.

Il primo aghificio fu in Italia fu fondato a Lecco, il Primo Aghificio Italiano produce tuttora aghi per cucire a mano e macchine.

 

 

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#45 Guest_deleted32173_*

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Inviato 04 luglio 2015 - 10:55

Il telefonino
 
220px-Telecar-cd.jpg
 
 
 
Il telefono cellulare fu inventato da Martin Cooper, direttore della sezione Ricerca e sviluppo della Motorola, che fece la sua prima telefonata da un cellulare il 3 aprile 1973. Dopo 10 anni la Motorola decise di produrre un modello dal costo di 4000 dollari.[1]
 
L'evoluzione della telefonia cellulare
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Telefonia cellulare.
 
Esempio di uno dei primo cellulari analogici trasportabile (0G)
 
Evoluzione del telefono cellulare. Da sinistra: Motorola 8900X-2 (uno degli ultimi cellulari analogici 1G)[2], Nokia 2146 orange 5.1 (GSM), Nokia 3210, Nokia 3510, Nokia 6210, Ericsson T39, HTC Typhoon
Dalla sua comparsa, il telefono cellulare ha usato diversi sistemi di funzionamento principali (e alcuni "intermedi"), denominati "generazioni", basati su differenti tecnologie e standard di comunicazione, dai sistemi analogici degli anni settanta/novanta (160/450/900 MHz) a quelli digitali basati su standard GSM, GPRS, UMTS/EDGE e VSF-Spread OFDM (rispettivamente terza e quarta generazione ossia 3G e 4G).
 
Mentre il passaggio dal segnale analogico a quello digitale ha permesso d'implementare oltre alla sola chiamata vocale l'uso dei messaggi di testo SMS, registrare e visualizzazione foto e filmati, con il GPRS si è consentito l'utilizzo del telefono cellulare anche per inviare foto e filmati digitali, streaming audio e video (generalmente solo con l'EDGE, l'ultima evoluzione del 2G), navigare in Internet (nello speciale protocollo Wireless Application Protocol (WAP) oltre al tradizionale HTTP) e spedire e-mail, mentre con l'UMTS (terza generazione) si sono aperte le porte alle videotelefonate (successivamente venne integrata la possibilità anche ai dispositivi 2G). Con l'avanzamento della tecnologia digitale, comparvero i primi tivufonini per visionare il segnale TV tramite alcune emittenti televisive dedicate.
 
Evoluzione tecnica
 
Smartphone Nokia N97.
L'evoluzione dei segnali radio venne affiancata da un'evoluzione tecnologica più evidente, passando dagli schermi LCD monocromatici ai primi schermi a colori, ora con tecnologia a LED e alla funzionalità touch screen. La grafica sempre più definita e l'impiego di menù sempre più complessi fino all'uso delle icone, ha reso nel tempo i telefoni cellulari sempre più simili a un personal computer. Accessori come fotocamere integrate (uno dei primi esempi fu il J-SH04) in grado di fotografare con ottime risoluzioni, riprendere piccoli video e, a seconda del modello e della quantità di memoria disponibile, hanno consentito la possibilità di registrare veri e propri filmati digitali, visionare foto e video sempre più dettagliati, navigare in Internet con prestazioni sempre più simili a quelle offerte da un PC.
 
Le suonerie, grazie a micro-casse acustiche e a componenti audio sempre più sofisticati incorporati nel telefono, da monofoniche sono divenute polifoniche e poi stereo per arrivare all'audio virtual 3D, diventando degli apparati multimediali in grado di far ascoltare stazioni radio, compilation di MP3, effettuare registrazioni ambientali, memorizzare l'audio delle nostre conversazioni telefoniche e il tutto con qualità audio di alto livello.
 
I software dei cellulari di ultima generazione sono veri e propri Sistemi Operativi in grado di gestire i più svariati applicativi come browser per navigare in Internet, programmi di video scrittura e posta elettronica, giochi e suonerie scaricabili dalla rete, ecc. I più recenti ed evoluti cellulari chiamati Smartphone, offrono anche la possibilità di installare programmi complessi come per il foto-ritocco, per il controllo del computer, per la protezione crittografica della conversazione (crypto phone) o altri innumerevoli applicativi.
 
Ultimamente, grazie ad accordi presi tra i produttori di cellulari e i gestori delle mappe globali GPS, si possono utilizzare i telefoni cellulari (con antenna GPS interna o esterna) come navigatori satellitari e questi, grazie all'alta efficienza di alcuni modelli, possono rappresentare una vera e propria sfida rispetto alle società specializzate nella costruzione di soli navigatori.
Sono aumentate anche le porte e i metodi di connessione verso altri sistemi come ad esempio la trasmissione dati a infrarosso (IR), il Bluetooth e il wi-fi, la connessione tramite porta USB, la possibilità di collegare cuffie, auricolari, microfoni e apparati vivavoce per auto o volendo, un vero e proprio impianto HiFi.
 
Alcuni modelli inoltre possono alloggiare schede di memoria aggiuntive Secure Digital (SD) per aumentare la memoria o perfino alloggiare e gestire 2 schede telefoniche SIM contemporaneamente quindi con due differenti numerazioni telefoniche sullo stesso telefono.
 
Infine un accenno anche al telefono satellitare che, tramite la connessione satellitare, permette di telefonare praticamente da qualsiasi parte del globo. Nati per sopperire all'esigenza di chiamare anche da zone non coperte dalle cellule telefoniche, sono telefoni che garantiscono un funzionamento anche in ambienti estremi cioè molto caldi, molto freddi o molto umidi. Utilizzano materiali resistenti ma leggeri, impiegano batterie con autonomie maggiorate e sono corredati di numerosi gadget utili ai più svariati scopi e imprevisti.
 
La diffusione
 
Uso dei cellulari nel mondo in percentuale alla popolazione; 100%+ indica in media più di un cellulare per persona
Nei primi anni questi dispositivi erano particolarmente costosi, basti pensare come il Motorola 8900x costasse quasi 4000 dollari negli anni 80, mentre attualmente la sua replica non fedele al 100% del 2005 costava meno di 250 dollari[3], per questo la loro diffusione era limitata alle persone più ricche, mentre dalla seconda metà degli anni novanta con le nuove tecnologie e prezzi contenuti il cellulare smise di essere uno status symbol: la sua successiva estrema diffusione ha provocato la spontanea insorgenza di una sorta di galateo dedicato.
 
Dal XXI secolo in poi la moda ha influenzato notevolmente anche questo settore infatti, sul mercato, si trovano telefoni cellulari di qualsiasi dimensione, forma e design; sono stati impiegati innumerevoli materiali differenti arrivando alla produzione di vere e proprie opere uniche più simili a gioielli di altissimo valore. Esistono cellulari per impieghi speciali con segnali cifrati e con sistemi che impediscono l'intercettazione del traffico telefonico, modelli praticamente impermeabili e ad altissima resistenza.
 
Caratteristiche generali
Si collega alla rete telefonica fissa e alla rete dati tramite centrali di smistamento presenti nel core cablato della rete cellulare a sua volta collegate a stazioni radio base (BTS, Base Transceiver Station), molto spesso dotate di tre o più celle radio, ciascuna capace di diverse connessioni con gli apparecchi mobili nella rispettiva area di copertura e secondo le frequenze supportate.
 
Il telefono cellulare consente dunque di avere disponibile un collegamento telefonico quando si trovi nel raggio di copertura di una "cella radio" di una stazione radio base cui agganciarsi, e quando non schermato da ambienti, ostacoli fisici o manufatti limitanti la diffusione/propagazione delle frequenze radio elettromagnetiche (ad es. edifici/strutture metalliche).
 
La disponibilità di servizio ovvero la presenza di copertura cellulare, nonché la potenza del segnale, è indicata dai ben noti livelli di campo e dipende dunque dalle condizioni di radiopropagazione del segnale radio. Il limite di distanza nella copertura dipende dalle specifiche tecniche correlate alla tecnologia GSM, variabile da poche centinaia di metri fino a 35 km, e dalla tipologia del terreno/ambiente su cui si svolge la comunicazione. A partire dall'inizio del 2000 l'evoluzione dei telefoni cellulari si è indirizzata sempre più verso forme evolute e intelligenti come gli smartphone di pari passo con l'evoluzione degli standard di telefonia cellulare e della miniaturizzazione ed aumento prestazionale dei componenti elettronici di supporto (memoria e processori).
 
L'avvento e la diffusione delle reti radiomobili e dei telefoni cellulari hanno rappresentato una vera e propria rivoluzione tecnologica e sociologica dagli inizi degli anni novanta (assieme ad altre invenzioni quali internet e il GPS) nonché uno dei motori dello sviluppo economico mondiale nell'ambito dell'Information and Communication Technology (ICT).
 
Il primo telefono cellulare portatile è stata dimostrata da John F. Mitchell [4][5] e il dottor Martin Cooper di Motorola nel 1973, con un portatile del peso di circa 4,4 libbre (2 kg) [6]. Nel 1983, il DynaTAC 8000x è stato il primo ad essere disponibile in commercio. Dal 1983 al 2014, gli abbonamenti di telefonia mobile in tutto il mondo è cresciuto ad oltre 7 miliardi, fino a raggiungere la base della piramide economica [7]. Nel 2014, i produttori di telefoni cellulari top erano Samsung, Nokia, Apple e LG. [8]
 
Funzionalità di supporto
Un telefono cellulare oltre alle funzioni di ricetrasmissione deve presentare anche le seguenti funzionalità:
 
potersi sincronizzare e agganciare sia alla frequenza della cella di appartenenza sia (caso GSM) temporalmente con il time-slot o trama dedicata all'utente all'interno della banda della cella durante il radiocollegamento. Tipicamente a livello logico tale procedura è attuata dopo la misurazione dei livelli di potenza del segnale inviato dalle varie stazioni radiobase di celle limitrofe e la scelta di quella a potenza maggiore per massimizzazione del rapporto segnale-rumore ovvero dunque della qualità della trasmissione. Dal punto di vista elettronico-circuitale tale funzionalità di sincronizzazione e aggancio è realizzata con l'ausilio di circuiti PLL.
segnalare periodicamente alla stazione radiobase della cella di appartenenza la sua presenza attraverso il codice identificativo (dell'utente, del cellulare, della scheda SIM) per consentire il roaming ovvero essere rintracciato all'interno della stessa rete di un operatore o da parte di reti cellulari di altri operatori. Tipicamente questa funzionalità si realizza direttamente all'atto di aggancio alla cella radio che manterrà dunque in memoria le informazioni su tutti i terminali connessi. Tali informazioni d'utente finiscono poi memorizzate dinamicamente in un database a disposizione dell'intera rete.
adattare il livello di potenza emesso durante una trasmissione in funzione dell'effettiva distanza dalla stazione radiobase della rispettiva cella di copertura limitando così il contributo in interferenza sulle celle limitrofe co-canali e migliorando l'efficienza del consumo energetico oppure in funzione delle reali condizioni di radiopropagazione presenti. Questa funzionalità è resa possibile dalla misura costante del livello di potenza del segnale con la stazione radiobase. Ne consegue che il consumo di potenza (somma di contributo di trasmissione e contributo di pre-elaborazione) di un cellulare durante una trasmissione dipende dalla distanza dalla stazione radiobase all'interno della cella di copertura, ed è maggiore in trasmissione che in ricezione dove è necessaria solo l'energia necessaria per l'elaborazione.
praticare l'handover ovvero il cambio di canale di comunicazione all'interno della stessa cella o tra celle diverse quando il terminale si sposta nell'area di competenza di un'altra cella (cell switching) senza interrompere la comunicazione. Anche questa funzionalità comporta la misura costante del livello di potenza del segnale pervenuto da stazioni radiobase delle celle limitrofe e l'aggancio alla cella di destinazione al superamento di una certa soglia prefissata di potenza rispetto a quella del segnale della cella di origine. Segue poi la sincronizzazione nel tempo e la segnalazione del proprio identificativo per il roaming. Alcuni sistemi di telefonia cellulare consentono l'aggancio ad altre celle limitrofe rispetto a quella di residenza anche quando il traffico in questa cella è troppo elevato per essere supportato garantendo così una maggiore disponibilità di servizio.
se la comunicazione è di tipo digitale (come in tutti i sistemi moderni a partire dal GSM in poi) il terminale mobile dovrà operare le consuete codifiche di sorgente e codifiche di canale in trasmissione e le rispettive codifiche inverse (decodifiche) in ricezione. Inoltre in ogni caso dovrà provvedere anche alla cifratura dei dati in trasmissione e alla rispettiva decifratura in ricezione per garantire la riservatezza o confidenzialità della comunicazione sul mezzo radio che è un mezzo condiviso e facilmente accessibile a tutti.
i moderni terminali radiomobili hanno inoltre le capacità di agganciarsi ai vari sistemi di comunicazione radiomobile disponibili su un territorio, grazie a procedure di switching automatico da un sistema all'altro e a più dispositivi di ricetrasmissione, cioè avere dunque disponibili più forme di connettività in funzione della qualità stimata della trasmissione nei vari sistemi rilevati e/o dei costi. Queste funzionalità sono a loro volta rese possibili dall'interoperabilità tra le tecnologie wireless esistenti grazie a opportune procedure di handover da un sistema a un altro che tentano il più possibile di mantenere in vita una stessa sessione di navigazione, pur variando le specifiche di qualità di servizio della trasmissione passando da un sistema all'altro.
Molte di queste funzionalità di controllo, segnalazione e gestione sono garantite attraverso l'uso o appoggio a canali logici di segnalazione o controllo.
 
 
 


#46 Guest_deleted32173_*

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Inviato 06 luglio 2015 - 02:41

Gomma da masticare 

 

220px-Kaugummis.jpg

 

 
Le prime tracce di un simile uso della gomma naturale risalgono ai Maya, i quali masticavano abitualmente palline di gomma. Chicle è infatti il nome nahuatl della pianta (Manilkara chicle) dalla quale si estrae.
 
L'invenzione della gomma da masticare moderna viene attribuita al Generalissimo e presidente del Messico, Antonio López de Santa Anna.
 
La nascita della moderna gomma da masticare si deve a William Semple, il quale brevettò la prima ricetta il 28 dicembre 1869[1]. Le prime palline di gomma da masticare vennero messe in vendita nel New Jersey nel 1871, ma erano molli e senza sapore.
 
Le tecniche di produzione furono migliorate da Semple e da altri al fine di ottenere un prodotto più consistente e con maggior sapore, decretandone una grande diffusione nell'ultimo decennio del secolo.
 
Nel corso del XX secolo s'è affermato l'uso di gomme sintetiche (poliisobutilene) al posto del chicle, anche se quest'ultimo viene ancora usato da alcune compagnie.
 
Le proprietà elastiche sono state anche migliorate per mezzo di additivi. In particolare, per incrementare la viscosità, viene impiegata la gomma di xanthano, dotata di proprietà addensanti.
 
Inquinamento da gomma
 
Gomme da masticare su un marciapiede a Reykjavik (2008).
Le gomme da masticare sono fonti di inquinamento, in quanto aderiscono alla superficie sulla quale vengono gettati (ad esempio strade), inoltre per la loro rimozione vengono utilizzati prodotti chimici o particolari sistemi di fresatura. Osservando i marciapiedi e tutti i camminamenti pedonali, soprattutto delle grandi città, si osservano macchie nere che deturpano i manti stradali e sono dovute alle innumerevoli gomme gettate incurantemente in terra dai consumatori di chewing-gum.
 
A Singapore è vietata dal 1992 l'importazione e la vendita di gomme da masticare, sia per motivi igienici, sia per la possibile interferenza con il buon funzionamento delle infrastrutture[2].
 
Produzione
Si ottiene dalla lavorazione di un impasto di gomma base, zucchero, additivi e aromi. La presenza dello zucchero nella gomma da masticare potrebbe favorire la carie, ma in commercio ne esistono varietà senza zucchero, sostituito da dolcificanti come l'aspartame o lo xilitolo. Quest'ultimo, secondo i produttori, essendo un potente antibatterico, avrebbe addirittura la capacità di prevenire la carie.
 
Curiosità
La parola "cìcles" viene adoperata come sinonimo in Piemonte (a Alessandria, Asti, Cuneo, Torino e Biella) e a Bologna.
La parola "cicca" viene adoperata come sinonimo in quasi tutta la Lombardia
La parola "cingomma" (abbreviato in "ciga") viene adoperata come sinonimo in gran parte dell'Italia centrale, meridionale, in Sardegna (nella variante gingomma in Calabria e in Campania), e in Veneto (anche nella variante "cincingoma", goma o letteralmente "cevingum").
La parola "ciunga" viene adoperata come sinonimo nel Trentino Alto-adige e in Veneto.
Le parole "gigomma" o "caramella molla" vengono adoperate come sinonimi in Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata.
La parola "ciuca" viene adoperata come sinonimo nel Cilento
A Messina la parola "masticante" viene utilizzata come sinonimo.
Tipi di gomma da masticare
Frizzy pazzy in voga in Italia alla fine degli anni ottanta e mai sospese dalla vendita.
 
 


#47 Zagarth

Zagarth

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Inviato 06 luglio 2015 - 08:12

Tutti i link sono stati disabilitati. Per le prossime volte, fai attenzione.  :)

 

Buon gioco!



#48 Guest_deleted32173_*

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Inviato 06 luglio 2015 - 09:31

Grazie 1000 per la prossima volta guardo meglio ciò che inserisco 

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La biglia
 
 
310px-WestAfricanMarbles.jpg
Nel biliardo
Tipiche quelle utilizzate nel gioco del biliardo (il cui nome deriva proprio da queste). Il materiale tradizionale era l'avorio, oggi sono leghe plastiche speciali. Il gioco si svolge su un tavolo specificatamente costruito, costituito da un piano ricoperto di panno verde, delimitato da sponde, in alcuni casi provvisto di 6 buche. La palla è posta in movimento con l'ausilio di una stecca o a mano libera.
 
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Biliardo.
Nei giochi dei bambini
Niente fonti!
Questa voce o sezione sull'argomento giochi non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti.
Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.
Biglia (o bilia) è anche una qualunque sfera delle dimensioni tra 1 e 1,54 cm[senza fonte] circa, usata in vari giochi, ad esempio per corse su pista o per centrare buche per terra o biglie avversarie. Con le biglie di queste dimensioni si gioca anche a bocce. Il materiale più usato per le biglie era (ed è ancora) il vetro, generalmente colorato in varie tonalità; tuttavia venivano usate anche di acciaio (spesso derivanti da grossi vecchi cuscinetti a sfere), di osso e, più raramente, di coccio.
 
I giochi con le biglie erano molto praticati in passato, quando i bambini giocavano all'aria aperta ed avevano a disposizione spazi sterrati in cui costruire le piste o le buche. Oggi sopravvivono più che altro nelle spiagge, o in qualche riedizione tecnologicamente evoluta.
 
Il movimento è ottenuto in due modi diversi:
 
per le corse in pista: con un movimento rapido del dito medio contrapposto al pollice (schicchera o piffetto in alcuni dialetti)
per il lancio aereo: con un movimento rapido del pollice contrapposto al medio e con l'indice d'appoggio. Tale lancio poteva avere come bersaglio la buca o la biglia di un concorrente.
Gioco del "Gallo"
Si disegnava un cerchio per terra e dal centro del cerchio, una linea abbastanza lunga.I giocatori puntavano un certo numero di  biglie che venivano allineate; la prima a sinistra era “il gallo”, ed era posizionata nel centro del cerchio (di solito un "biglione", che valeva, a seconda della dimensione, 5 o 10 biglie); le altre si mettevano una dietro l'altra a partire dall'incrocio del cerchio con la linea; poi da una certa distanza convenzionata, dopo il sorteggio, ogni giocatore “tirava” una biglia contro la fila e si guadagnava tutte le biglie che si trovavano sulla destra all’arco, formato dalla biglia tirata. Era molto importante la mira. Spesso si puntava sul “gallo” perché voleva dire guadagnare tutte le biglie.
 
Gioco del "Triangolo"
Si disegna sul terreno, o sull'asfalto con un gessetto, la figura di un triangolo equilatero di 10-15 cm di lato. Al suo interno si inserisce "la posta": il numero di biglie che si vogliono giocare. I giocatori, che devono essere distanti dal triangolo non meno di tre metri, prendono una biglia più grande e a turno devono cercare di avvicinarsi il più possibile al triangolo, ma non lo devono attraversare. Quello che si avvicina di più ha diritto al primo tiro, e così via gli altri. A questo punto, i giocatori hanno l'obiettivo di attraversare il triangolo con la biglia - senza che questa rimanga all'interno del triangolo, pena l'esclusione dal gioco - cercando di buttare fuori le biglie messe in "posta" all'interno del triangolo. Durante questo attraversamento, la biglia del giocatore non deve però andare poi a toccare quella degli altri concorrenti, che sta fuori dal triangolo (pena è l'esclusione nel caso vada a toccarne una che non abbia ancora attraversato il triangolo). Se si riesce quindi a buttare fuori una o più biglie, si ha diritto a continuare nei tiri. Vince chi butta fuori dal triangolo più biglie degli avversari.
 
Nei giochi in spiaggia
Una variante molto diffusa del gioco delle biglie su pista è il gioco delle biglia su sabbia. In questo caso le biglie sono di plastica, più grandi rispetto alle tradizionali biglie di vetro, e spesso al loro interno sono stampate immagini di ciclisti, automobili o personaggi di animazione.
 
Dal 2005, l'Assessorato allo Sport di Rimini organizza il campionato mondiale di Cheecoting[1] (altro nome per identificare il gioco di biglie su spiaggia). Dal 2009, L'Assessorato allo Sport del Comune di Ravenna patrocina un Campionato di Biglie, organizzato dall'Associazione Sportiva Dillentantistica Centathlon che prevede, oltre alle classiche tappe su sabbia durante la stagione estiva, anche delle gare di biglie sulla neve durante la stagione invernale. La prima tappa, valevole per un campionato mondiale di biglie sulla neve, si è disputata a Nauders in Austria l'11 dicembre 2010[2]. Il secondo campionato si è svolto il 17 dicembre 2011, sempre a Nauders.
 
 


#49 Guest_deleted32173_*

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Inviato 09 luglio 2015 - 07:10

Mattone
 
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L'impiego costruttivo del laterizio nasce per soddisfare delle necessità costruttive in zone prive di altri materiali da costruzione, come il legno o la pietra. La preparazione dei primi mattoni avveniva compattando acqua, additivi e materia prima, lasciando essiccare il tutto all'aria. Probabilmente le prime forme hanno preso una conformazione ovoidale, seguendo la deformazione naturale. Affinando la tecnica, la manualità veniva sostituita da una formatura in stampi di legno, e questa innovazione portò all'indifferenza topologica dei conci. In questa fase evolutiva non veniva usato nessun tipo di legante, difatti gli elementi venivano messi in opera ancora umidi, il che portava a legarsi gli uni agli altri.
 
I primi leganti nacquero nella zona mesopotamica durante la III dinastia Ur, intorno al XX secolo a.C., basati su impasti molto liquidi di argille, fino ad arrivare all'introduzione della calce in Campania attorno al 300 a.C. Con l'introduzione dei leganti si vede un'ulteriore evoluzione, difatti la disposizione diventa un continuo di concio e legante.
 
I processo di cottura dei mattoni può essere attribuito ai Sumeri, estendendosi poi all'intera Mesopotamia. Tale processo era complesso e costoso, facendo divenire il mattone un materiale prezioso e simbolico. Questa evoluzione portò ad un ridimensionamento dei mattoni, da dimensioni 30x30x15 a dimensioni minori; l'intonacatura divenne superflua difatti si usava il mattone facciavista. Esempi di questa evoluzione sono le fortificazioni della porta Istar a Babilonia nel VII secolo a.C. In Italia la conoscenza del mattone arrivò tardi, in molte regioni arrivò solo intorno al I secolo a.C.; in alcune zone del sud Italia si sono ritrovati dei mattoni con dei timbri greci, coloro che importarono in Italia questa tecnologia. A Veio è stata ritrovata una fornace di fattura greca databile al 150 a.C., mentre a Pompei è stata scoperta la colonna a stella nella basilica, risalente al 120 a.C.
 
Un importante contributo ci viene da Vitruvio, nel suo De Architettura, la maggior parte delle tecniche erano basate sulla terra cruda, tuttavia tale testo rappresenta il periodo repubblicano, già obsolete al tempo della stesura del testo. In quest'epoca i romani usavano la costruzione in cotto solo per la realizzazione dei manti di copertura, con il caratteristico embrice, messo anche sopra i muri per proteggere la terra cruda dalle intemperie. Solo in epoca imperiale vennero fatte una serie di leggi per bandire l'uso delle costruzioni in terra cruda, soprattutto a Roma, difatti la terra cruda obbligava i costruttori a fare mura di elevato spessore, per aiutare la scarsa resistenza meccanica e l'alta vulnerabilità del materiale. Svetonio disse che Augusto trovò Roma di mattoni e la lasciò di marmo[1]. I progettisti dell'antica Roma affidarono la funzione di cassaforma al mattone, attribuendo quella primaria al conglomerato di malta idraulica con grossi inerti, mentre il rivestimento venne lasciato allo stucco o alla pietra, come il marmo o il travertino.
 
Durante questa epoca la produzione dei mattoni fu uniformata per dimensioni, creando tre categorie basate sul quadrato:
 
Bessales, 2/3 di piede, pari ad un lato di 17,7 cm
Sequipedales, con lato da 1 piede e mezzo, pari a 44,4 cm
Bipedales, con lato da 2 piedi, pari a 59,2 cm
Nel periodo bizantino decade la pratica costruttiva del nucleo concretizio. Il nucleo non forma una massa omogenea, è tenuto assieme solamente dal rivestimento esterno, che funziona da cassero, senza il quale il nucleo si sgretolerebbe. I problemi di collegamento tra le cortine raggiungevano spessori di 5 filari, praticamente lo spessore della muratura con il nucleo.
 
In epoche più recenti, abbiamo diversi autori che spiegano varie tecniche per fare i mattoni, Leon Battista Alberti scriveva:
 
« ... nel fare i mattoni bisogna lodare quella terra che tiene di creta, e biancheggia. Lodasi ancora la rossiccia, e quella che si chiama sabbiona maschio. Debbesi schifare la renosa, e quella che al tutto e sabbionosa; e più che d'altre la pietrosa. E' innanzi tutto da scartare quella ghiaiosa: questi tipi di terra infatti si contorcono e si crepano nel cuocere, per sbriciolarsi poi per conto proprio dopo cotti. »
Vincenzo Scamozzi si opponeva alle tecniche tradizionali, a favore della struttura edilizia, riteneva che la resistenza delle murature in pietrame irregolare o a sacco sia limitata, poiché dipende eccessivamente da fattori come la messa in opera e la qualità del legante. Nel suo L'idea di architettura Universale scriveva:
 
« ... le crete bisogna non mai prenderle di menadicce nuove, e che abbiamo belletta, o sabbia o caranto »
Nel Dell'Architettura libri dieci, pubblicato a Venezia nel 1590, G.A. Rusconi, testimonia una tendenza consolidata di costruire le case interamente in mattoni, tuttavia tende a difendere le regole dell'arte in cui si era trasmesso il linguaggio architettonico classico che rimaneva comunque indiscusso.
 
Francesco Milizia, nel 1781, scrive che l'argilla da usare deve essere bianchiccia o grigia, pastosa e priva affatto di d'arena o di pietrucce. Suggeriva che per conoscere il comportamento dell'argilla bisogna fare una prova, facendo un mattone e analizzandone il comportamento, il che avveniva grazie all'esperienza. Nel 1807 Lodovico Bolognini suggeriva che i mattoni dovrebbe essere tutti di pasta uguale. Mentre nel 1925 Pellacini suggerisce che le argille di qualità migliore provengono dai sedimenti alluvionali.
 
Nel periodo Barocco la muratura a sacco veniva sostituita da una struttura omogenea in mattoni. Questo perché le murature complesse di questo stile non permettevano una struttura a sacco. Solo nel XIX secolo sono state catalogate tutte le regole dell'arte usate fino ad ora, le tecniche dell'arte raggiungono un affinamento senza precedenti; inoltre le nuove riforme sanitarie presentavano ambienti interni più ampi, si introducono anche i concetti preliminare di scambi termici. Venne presentata all'Expo 1851 da Roberts una casa modello per una famiglia da quattro persone, con camera d'aria esterna e l'adozione di mattoni forati.

 

 

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Inviato 11 luglio 2015 - 07:03

Lavatrice

 

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Il primo esemplare di macchina per lavare fu sviluppato nel 1767 da un teologo di Ratisbona, Jacob Christian Schäffer. I primi modelli di macchine meccaniche risalgono alla fine del XIX secolo; come è accaduto per moltissime invenzioni, ci si è inizialmente ispirati a meccanizzare il processo manuale: le prime lavatrici, infatti, furono concepite come macchine atte a "sfregare" i panni, simulando così l'effetto manuale del modo più diffuso di lavare la biancheria. Le macchine così realizzate, il cui movimento fu inizialmente manuale, poi elettrico, presentavano però l'evidente svantaggio di provocare un'usura eccessiva dei panni, nonché risultati di lavaggio decisamente deludenti. La prima ed unica soluzione efficace fu l'adozione dell'agitatore: il principio è quello di forzare la soluzione detergente attraverso le fibre dei tessuti agitandoli e "sbattendoli" attraverso l'acqua. Sviluppata in America, questa tecnologia è sostanzialmente ancora oggi praticamente la più diffusa nel mondo nonché la più efficace. Negli anni '20 ci fu qualche tentativo di adottare nuove tecnologie di lavaggio, con la comparsa delle lavatrici a cestello (ad asse orizzontale) che trovarono però impiego nel tempo specialmente per le applicazioni industriali le quali curavano di meno l'aspetto della pulizia e smacchiatura nel lavaggio a macchina. Infatti la biancheria veniva e a tutt'oggi viene, in queste circostanze, solitamente controllata e smacchiata preventivamente a mano prima del lavaggio, e comunque poi scrupolosamente controllata anche dopo il lavaggio per verificare la completa rimozione dello sporco, ed eventualmente smacchiata manualmente anche dopo il lavaggio. I modelli ad agitatore sostanzialmente forniscono prestazioni migliori sui risultati di lavaggio e furono quindi, generalmente, preferiti ai modelli a cestello ad asse orizzontale e furono via via dotati di ulteriori funzionalità: resistenze per il riscaldamento dell'acqua, mangani a rulli per la strizzatura della biancheria. Lo sviluppo di questo modello vide la realizzazione delle cosiddette "twin tub", cioè delle lavatrici a due vasche: una, con agitatore, nella quale si effettuava il lavaggio dei panni, l'altra, con cestello ad asse verticale, dove i panni venivano risciacquati e strizzati per centrifugazione; questo modello è tuttora piuttosto diffuso, soprattutto nei paesi asiatici e africani. Il modello con vasca unica e cestello ad asse orizzontale, tipicamente europeo, non ha invece riscontrato grande successo negli USA, dove naturalmente anche per le automatiche si è proseguiti con la produzione e quindi l'uso preferenziale di lavatrici ad agitatore, anche se ci sono aziende (Bendix, Westinghouse, Whirlpool) che hanno realizzato numerosi modelli a cestello ad asse orizzontale.
 
Dopo la Seconda guerra mondiale, lo slancio industriale che caratterizzò soprattutto l'Europa occidentale vide nascere nuove esigenze e desiderio di benessere: a livello domestico (anche per il ruolo della donna che stava considerevolmente cambiando, soprattutto in Italia) le industrie elettromeccaniche iniziarono una fervida attività di ricerca e produzione di lavatrici. La Germania, che già prima della guerra aveva iniziato la produzione di lavatrici, riprese continuando sulla scia della tecnologia inizialmente adottata, che vedeva una decisa scelta per i modelli a cestello ad asse orizzontale. Le lavatrici tedesche, anche prodotte dopo la guerra, erano però caratterizzate da notevoli problemi statici, poiché prive di sospensioni (la vasca era solidale con la scocca della macchina) che ne rendevano piuttosto complicata l'installazione: dovevano infatti essere fissate al pavimento. In Italia, invece, si adottò inizialmente il modello americano, con agitatore ad una vasca e mangano per la strizzatura (Candy modello 50, prodotta nel 1947), poi il modello classico a due vasche, semi-automatico (Candy bi-matic, prodotta nel 1957, Rex-Zanussi mod. 250, prodotta alla fine degli anni '50) e, in seguito sulla scia dei moltissimi modelli automatici importati dalla Germania anche in Italia si proseguì la produzione di lavatrici automatiche a modello tedesco, quindi a cestello (ad asse orizzontale) con i modelli (Candy Automatic, 1959, Rex-Zanussi modello 260 etc.) ulteriormente evoluti nelle superautomatiche a seguito dell'adozione delle vaschette per il detersivo separate (per pre-lavaggio, lavaggio, additivi di risciacquo). Le lavatrici hanno raggiunto la maturità di prodotto negli anni successivi, che in Europa si è concentrata più sull'efficienza energetica piuttosto che sulle performance e quindi efficacia e risultati di lavaggio. Si deve osservare come l'evoluzione della lavatrice sia segnata, negli ultimi anni, da due fattori importanti:
 
l'orientamento prevalente verso l'utilizzo di tessuti misti o interamente sintetici, colorati, che "si sporcano meno" e "si lavano più facilmente" ha comportato la necessità di sviluppare programmi di lavaggio sempre più a medie-basse temperature e la pressoché totale abolizione del "prelavaggio";
i detersivi, sempre più efficaci, contribuiscono decisamente alla riduzione dei tempi e dell'azione di lavaggio.
 
 
 


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Inviato 14 luglio 2015 - 02:20

ELICOTTERO

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La prima testimonianza storica di un oggetto in grado di sollevarsi verticalmente nell'aria grazie alla rotazione di un'elica risale alla Cina del V secolo a.C.: un giocattolo costruito in leggerissimo legno di bambù e costituito da un'elica a due pale collegata a un bastoncino che, fatto ruotare velocemente fra i palmi delle mani o mediante la trazione di una cordicella, lo faceva levare in volo.[1] Questi piccoli giocattoli, tuttora utilizzati anche in Giappone dove prendono il nome di taketombo, arrivarono in Europa presumibilmente nel XV secolo, dal momento che appaiono in alcuni dipinti a partire dal 1463.[2]

 
Circa vent'anni dopo Leonardo da Vinci, in un disegno del 1480 conservato nel Codice Atlantico[3], abbozza il progetto di una "vite aerea" che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto "avvitarsi" nell'aria sfruttandone la densità similmente a quanto fa una vite che penetra nel legno. La macchina era immaginata come una vite senza fine del diametro di circa 10 metri, mossa dalla forza muscolare di quattro uomini e costituita da una struttura di canne rivestita di una tela di lino inamidato.[4] Non vi è tuttavia prova che Leonardo abbia effettivamente costruito la macchina da lui immaginata che rimarrebbe, quindi, una delle tante intuizioni teoriche della multiforme attività del celebre inventore[5] o, piuttosto, l'anticipazione ante-litteram di un'elica aeronautica.[6]
 
Nel luglio 1754 l'inventore russo Mikhail Lomonosov mostrò all'Accademia russa delle scienze un piccolo birotore in tandem potenziato da una molla e inteso come mezzo per portare in quota strumenti meteorologici.[7] Nel 1783, appena un anno dopo l'ascensione dei fratelli Montgolfier in pallone, il naturalista Christian de Launoy, con l'aiuto del suo meccanico Bienvenu, realizzò e presentò all'Accademia della Scienza di Parigi un giocattolo dimostrativo funzionante con due rotori controrotanti realizzati con piume di tacchino mosse da un archetto elastico metallico.[7][8][9] L'idea delle eliche controrotanti venne accettata come brevetto per la prima volta nel 1859 in risposta alla richiesta dell'inglese Henry Bright, cui fece seguito nel 1863 una simile registrazione di brevetti in Gran Bretagna e Francia da parte del visconte Gustave Ponton d'Amecourt. Questo pioniere del volo francese costruì un modello con un motore a vapore[8], che però non fu in grado di sollevarsi in volo durante l'esposizione aeronautica di Londra del 1868, ma la validità del progetto si poté verificare quando volò una versione con i rotori mossi da elastici.[10] D'Amecourt chiamò i suoi modelli "hélicoptères" ed è per questo considerato l'inventore del termine.[7]
 
Nel 1877 l'ingegnere italiano Enrico Forlanini riuscì a far sollevare fino all'altezza di circa 13 metri un modello di elicottero del peso di 3,5 kg con due rotori bipala coassiali controrotanti utilizzando un motore a vapore alimentato da una piccola caldaia portata ad alta pressione attraverso un fornello che costituiva la base da cui il modello si involava e che restava a terra per non appesantirlo.[9]
 
Prima metà del XX secolo[modifica | modifica wikitesto]
Nel 1901, l'inventore slovacco Ján Bahýľ costruì un modello di elicottero potenziato da un motore a combustione interna che riuscì a sollevarsi di 0,5 metri e che, una volta perfezionato, il 5 maggio 1905 si sollevò dal suolo di circa 4 metri compiendo un volo 1 500 metri.[7]
 
Nel 1906 due fratelli francesi, Jacques Breguet e Louis Charles Breguet, avvalendosi della collaborazione del professor Charles Richet, primi al mondo applicarono pale dotate di profilo alare ad un prototipo di elicottero realizzando il Gyroplane No.1, potenziato da un motore Antoinette da 45 CV che azionava per mezzo di una trasmissione a catena quattro rotori posti ai quattro vertici di una struttura a forma di X e muniti ciascuno di quattro pale biplane. In una data incerta compresa fra il 14 agosto e il 29 settembre 1907, lo strano velivolo riuscì a sollevarsi dal suolo di 60 cm con un passeggero a bordo per circa un minuto, ma l'impossibilità di spostarsi in volo controllato per la mancanza di qualsiasi dispositivo di comando, cosa che richiedeva la presenza di un uomo munito di un lungo rampone ad ognuno dei quattro vertici della macchina per mantenerla in assetto e impedire che si rovesciasse, fece sì che i voli del Gyroplane No. 1 vennero considerati come i primi voli con persone a bordo di un elicottero, ma non i primi voli liberi di un elicottero.[11][7]
 
 
L'elicottero di Paul Cornu del 1907
Il primo volo libero di un elicottero viene in generale riconosciuto alla macchina realizzata da un altro inventore francese (di origine rumena), Paul Cornu che, in collaborazione con il fratello Jacques e il padre Jules, progettò e costruì l'elicottero Cornu, un velivolo di 6 metri di lunghezza, in grado di ospitare un passeggero nel mezzo e dotato di due rotori controrotanti alle estremità messi in rotazione da un motore Antoinette da 24 cavalli.[7][12] Il 13 novembre 1907, a Lisieux, Cornu fu il primo uomo ad effettuare un volo libero controllato alzandosi in volo di 30 cm per circa 20 secondi, senza la necessità di vincoli di sicurezza e l'episodio viene riconosciuto come il primo volo libero effettivo di un elicottero con passeggero. In seguito Cornu effettuò pochi altri voli, fino ad arrivare ad un'altezza di quasi due metri, ma in realtà le soluzioni adottate non consentivano un efficace controllo del velivolo per cui ogni ulteriore esperimento venne abbandonato.[13]
 
 
Uno dei primi voli del PKZ 2
Durante la prima guerra mondiale, l'ingegnere ungherese Theodore von Kármán, insieme al proprio assistente tenente Wilhelm Zuroveć e al maggiore Stephan von Petrócz, realizzò per l'Imperial regio esercito austro-ungarico il PKZ 1, una macchina costituita da una semplice struttura triangolare in tubi d'acciaio recante quattro eliche orizzontali portanti in legno, due destrorse e due sinistrorse, azionate da un motore elettrico da 190 CV alimentato da cavi che la macchina sollevava con sé insieme alle funi di vincolo. Dopo quattro voli di prova la macchina finì fuori uso per un guasto al motore e fu sostituito dal più grande PKZ 2, ideato come piattaforma fissa da osservazione per l'artiglieria in sostituzione dei palloni frenati. Il velivolo era dotato di due eliche coassiali controrotanti del diametro di 6 metri, azionate da tre motori Gnome da 100 CV, era privo di qualsiasi sistema di controllo ed era destinato a sollevarsi in verticale, essendo vincolato al suolo attraverso funi. Sopra le eliche poteva essere montata una struttura cilindrica in legno per l'osservatore.[14] La costruzione del prototipo cominciò a fine 1917 e l'elicottero compì il primo volo il 2 aprile 1918 vicino Budapest. Durante gli oltre trenta voli successivi la macchina, priva di passeggeri, raggiunse un'altezza massima di una cinquantina di metri (ben lontana dai 500 richiesti dall'esercito imperiale) riuscendo a rimanere in volo anche per un'ora. Il 10 giugno 1918, di fronte ad una commissione esaminatrice composta da autorità militari, l'aeromobile precipitò probabilmente per un guasto meccanico, danneggiandosi seriamente. La commissione decise per la non continuazione del progetto, che venne quindi sospeso.
 
 
L'elicottero di Pateras Pescara
Nei primi anni venti, l'argentino residente in Europa Raúl Pateras-Pescara de Castelluccio diede una delle prime dimostrazioni funzionanti di controllo del passo collettivo e di quello ciclico: le pale dei rotori coassiali controrotanti del suo prototipo potevano essere svergolate alle estremità attraverso dei cavi in modo da aumentare o diminuire la spinta prodotta. Nel suo progetto era prevista anche l'inclinazione in avanti di pochi gradi del mozzo dei rotori, in modo da consentire il moto in avanti dell'aeromobile senza dover usare un'elica separata come negli aeroplani. L'elicottero, denominato "No. 1", venne provato nel gennaio 1924, ma si rivelò sottopotenziato e non in grado di sollevare il proprio peso. Il governo britannico finanziò ulteriori ricerche di Pescara che portarono alla realizzazione del modello "No. 3" che, equipaggiato con un motore radiale da 250 hp, nel gennaio 1924 riuscì ad sollevarsi dal suolo rimanendo in volo per circa dieci minuti. Pateras-Pescara fu anche in grado di dimostrare il principio dell'autorotazione.[7][15][16]
 
 
L'elicottero Oehmichen N°2 nel 1923
Il 14 aprile 1924 il francese Etienne Oehmichen stabilì il primo record del mondo riconosciuto dalla Fédération Aéronautique Internationale (FAI), volando con il suo elicottero quadrirotore per 360 metri. Il 18 aprile 1924, Pescara batté il record di Oemichen, coprendo la distanza di 736 metri in 4 minuti e 11 secondi con una velocità quindi di circa 13 km/h, mantenendosi ad una altezza di sei piedi (circa 1,8 m). Record di distanza che fu di nuovo reclamato da Oehmichen il 4 maggio, quando, col suo modello N°2, coprì la distanza di 1,69 km in 14 minuti volando ad un'altezza di 15 metri.[7][17] Il 4 maggio, Oehmichen stabilì il primo record su circuito chiuso di 1 km per elicotteri, coprendo la distanza in 7 minuti e 40 secondi con il suo modello "No. 2".[7][18]
 
Nello stesso periodo negli Stati Uniti, George de Bothezat realizzò l'elicottero De Bothezat per l'United States Army Air Service, ma l'esercito cancellò il programma nel 1924 e il prototipo venne demolito. Nel 1928, l'ingegnere aeronautico ungherese Oszkàr Asbóth costruì un prototipo di elicottero che riuscì a volare per non meno di 182 volte con una durata massima del singolo volo di 53 minuti.[7]
 
Albert Gillis von Baumhauer, un ingegnere aeronautico olandese, iniziò ad occuparsi di elicotteri nel 1923. Il suo primo prototipo volò (in realtà si limitò ad alzarsi in volo e rimanere in volo stazionario) il 24 settembre 1925, con ai comandi il capitano Floris Albert van Heijst dell'arma aerea dell'esercito olandese. L'elicottero era dotato di un rotore principale e un rotore anticoppia in coda mosso da un motore indipendente. La macchina era poco stabile e non ebbe seguito finendo distrutta in un incidente. La macchina di von Baumhauer era dotata di controllo del passo ciclico e di quello collettivo per i quali egli ottenne nel 1927 dal Ministero britannico dell'aviazione un brevetto d'invenzione con il numero 265 272.[7]
 
 
L'elicottero D'AT3 ideato da Corradino D'Ascanio in volo
Nel 1930, l'ingegnere italiano Corradino D'Ascanio realizzò il suo D'AT3, una macchina relativamente grande rispetto agli altri prototipi, dotata di due rotori coassiali e controrotanti. Il controllo avveniva utilizzando delle ali ausiliarie e piccole superfici di controllo comandabili sul bordo d'uscita delle pale,[19] un'idea in seguito utilizzata anche da altri progettisti di elicotteri, tra cui Bleeker e Kaman. Venivano inoltre impiegate tre piccole eliche montate sulla struttura per controllare sui tre assi rollio, beccheggio e imbardata. Il D'AT3 migliorò di poco all'aeroporto di Ciampino di Roma i record FAI dell'epoca ottenendo per l'altezza (17,4 m), durata (8 minuti e 45 secondi) e distanza (1078 m).[19]
 
In Unione Sovietica due ingegneri aeronautici, Boris N. Yuriev e Alexei M. Cheremukhin, che lavoravano al Tsentralniy Aerogidrodinamicheskiy Institut (TsAGI, l'istituto centrale di aerodinamica), realizzarono e fecero volare il TsAGI 1-EA, un elicottero basato su una struttura tubolare aperta, un rotore principale a quattro pale e due coppie di rotori gemelli da 1,8 metri di diametro con funzione anticoppia sistemate l'una sul muso e l'altra in coda. Potenziato da due motori M-2, copia russa del motore rotativo Gnome Monosoupape della prima guerra mondiale, lo TsAGI 1-EA fu in grado di compiere diversi voli a bassa quota con successo. Il 14 agosto 1932, Cheremukhin portò l'elicottero a una quota di 605 metri, superando abbondantemente il record di D'Ascanio, ma poiché l'Unione Sovietica non era ancora un membro della FAI il record non gli venne riconosciuto.[7] Un altro modello di elicottero era lo Kamov A7-3A, vagamente somigliante a un popolare aereo da caccia sovietico di quegli anni, il Polikarpov I-16: costruito in una dozzina di esemplari per la V-VS venne impiegato dai disperati comandi sovietici agli inizi dell' operazione Barbarossa e utilizzato per la ricognizione e l'attacco al suolo. Tutti i velivoli vennero persi dopo appena 2 settimane di servizio operativo. Questo è stato quindi probabilmente il primo elicottero d'assalto della storia, armato con bombe e razzi, protetto in coda da una piccola mitragliatrice.
 
L'ingegnere russo Nicolas Florine in quegli anni costruì il primo elicottero a rotori in tandem che effettuò il primo volo in Belgio a Sint-Genesius-Rode presso il Laboratoire Aérotechnique de Belgique (oggi von Karman Institute) nell'aprile 1933 e raggiunse la quota di sei metri e il record di resistenza in volo di otto minuti. Sebbene i rotori non fossero controrotanti, la compensazione della coppia era comunque ottenuta attraverso una leggera inclinazione dell'asse dei rotori in direzioni opposte. La scelta di non usare rotori controrotanti fu determinata dalla volontà di sfruttare la stabilizzazione fornita dall'effetto giroscopico. L'uso della co-rotazione dei rotori e la mancanza di cerniere nell'attacco delle pale con l'asse, rese l'elicottero particolarmente stabile in confronto alle macchine contemporanee.[7][20]
 
Dal secondo dopoguerra ad oggi[modifica | modifica wikitesto]
Il forte impulso allo sviluppo dell'aeronautica avvenuto nel periodo della seconda guerra mondiale, aveva fatto maturare grosse esperienze di volo con gli aerei che potevano ormai fornire il necessario supporto per mettere a punto macchine capaci delle prestazioni caratteristiche dell'elicottero.
 
 
Compensazione delle coppie che agiscono su di un elicottero grazie al rotore di coda
Proprio con l'aereo ci si era ritrovati di fronte al problema della controrotazione dovuta alla coppia generata dal motore negli aerei monoelica, ma la presenza delle ali fisse e la proporzione fra la portanza (dipendente dalla superficie alare) e le velocità di quei velivoli rendeva agevole la soluzione. L'elicottero invece non aveva ali fisse, e si dovette attendere che qualcuno mettesse meglio a punto i concetti di eliche controrotanti o quello dei rotori anticoppia per avere degli aeromobili stabilizzati.
 
Ma il problema principale da risolvere era dovuto al fatto che quando un elicottero inizia a muoversi in avanti, le pale del rotore avanzanti si muovono ad una velocità assoluta maggiore poiché su di esse alla velocità dell'aeromobile si somma quella dovuta al movimento di rotazione, mentre su quelle retrocedenti accade il contrario. Quindi le prime sviluppano una portanza maggiore delle seconde e di conseguenza l'aeromobile tende a ribaltarsi di lato. Questo problema fu brillantemente risolto dall'ingegnere spagnolo Juan de la Cierva e utilizzato su un velivolo di sua invenzione, l'autogiro. De la Cierva applicò ad ogni pala del rotore una cerniera di flappeggio che consentiva alle pale avanzanti di ruotare verso l'alto a quelle retrocedenti di ruotare verso il basso in modo da compensare la differenza di portanza fra pale avanzanti e pale retrocedenti.[21][22]
 
 
Il primo prototipo di Focke-Wulf Fw 61 immatricolato D-EBVU
Proprio sfruttando l'esperienza acquisita attraverso la costruzione su licenza degli autogiri di Juan de la Cierva, il professore Henrich Focke e l'ingegnere Gerd Achgelis, riuscirono a realizzare nel 1936 in Germania il primo vero elicottero della storia, il Focke-Achgelis Fw 61 che, nettamente superiore ai suoi predecessori, portò i primati mondiali di quota, distanza e velocità a ben 3 427  m, 230,348 km e 122,5 km/h, esibendosi anche in una spettacolare dimostrazione all'interno della Deutschladhalle di Berlino pilotato dalla famosa aviatrice tedesca Hanna Reitsch.[23]
 
Il primo modello militare impiegato attivamente fu invece il Flettner Fl 282 Kolibri (rispondente alla formula del cosiddetto sincrottero, con due rotori controrotanti intersecantisi le cui coppie si annullavano a vicenda, una formula che dopo la guerra venne ripresa dalla ditta americana Kaman) progettato da Anton Flettner e usato dalla Kriegsmarine, la marina militare tedesca, durante la seconda guerra mondiale per il pattugliamento antisommergibile a bordo delle navi di scorta ai convogli.[23]
 
Tuttavia l'elicottero si affermò negli Stati Uniti ad opera del progettista aeronautico di origine russa Igor Sikorsky, che il 13 maggio 1940 portò in volo il suo VS-300. Questo elicottero, migliorato e sviluppato, segnò il definitivo successo della formula monorotore con rotore anticoppia in coda (secondo lo schema suggerito fin dal 1912 da Boris Yuriev), oggi comune alla maggior parte degli elicotteri ma che all'epoca pioneristica non aveva goduto di molta fortuna.[23] Invece, la formula birotore a rotori coassiali venne portata al successo dal progettista sovietico Nikolaj Ilič Kamov, che nel 1952 realizzò il Ka-15, primo elicottero costruito in serie di una lunga serie di macchine progettate da Kamov a partire dagli anni della seconda guerra mondiale.[24]
 
 


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Inviato 15 luglio 2015 - 03:32

IL FRIGORIFERO

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Durante il XIX secolo vi sonó state importante revolucionario nel campo del alimentaron. In particolare, fu molto importante "la conquista del freddo", ossia l'invenzione della macchina frigorifera, avvenuta e brevettata nel 1851 dall'americano John Gorrie, successivamente perfezionata dal tedesco Windhausen, dall'inglese Reece e dal francese Tellier. A differenza del primo, quiste ultimo recuperavano il gas evaporato, che il primo perdeva completamente.
 
A quest'ultimo si deve anche la realizzazione del primo implanto frigorifero su un piroscafo, le frigorifique, che nel 1876 trasportò in Francia un carico di carne precedentemente macellata in Argentina, dopo un viaggio di 105 giorni. La tecnica venne poi applicata ai vagoni ferroviari, come nel caso del treno intercontinentale che partiva dalla California. Sul piano alimentare tutto questo significò il superamento delle tecniche tradizionali di conservazione (per salagione, per essiccazione, ecc.) la cui comune caratteristica era quella di alterare le qualità nutrizionali e organolettiche degli alimenti. Con la conquista del freddo invece si riuscivano a trasportare e conservare i prodotti per lunghi periodi mantenendo caratteristiche simili a quelle originali.
 
Lo sviluppo del commercio in tutto il mondo, oltre a garantire maggiori quantità di derrate alimentari, portò a quel fenomeno chiamato da molti storici "delocalizzazione dei gusti alimentari": mentre fino ai secoli precedenti la gente si nutriva quasi esclusivamente di alimenti prodotti nella zona in cui viveva, grazie alla "conquista del freddo" alle persone fu possibile accedere a cibi esotici, prodotti a migliaia di chilometri di distanza. Oltre ai prodotti consumati, anche il gusto cominciò a "delocalizzarsi" dando origine a quel processo di globalizzazione alimentare che culminò con la fine del XX secolo.
 
Il primo frigorifero domestico venne messo in vendita nel 1913. Un modello di frigorifero senza parti in movimento è stato brevettato da Albert Einstein e Leo Szilard nel 1930.[1] Dal 1931 l'ammoniaca fino allora usata venne sostituita col freon, fino al 1990 quando esso venne proibito per l'uso frigorifero; attualmente è diffuso l'isobutano che però è parecchio infiammabile.
 
 
 


#53 Guest_deleted32173_*

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Inviato 17 luglio 2015 - 06:38

BICI DEL FUTURO

 

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Nasce la bici senza raggi che si piega e si mette nello zaino

Startup incubata dal Politecnico di Torino, l'ideatore è un ingegnere di 31 anni. Realizzata in alluminio, peserà meno di dieci chili e sarà in commercio a fine anno
 
 
È italiana la prima bicicletta senza raggi che si ripiega in uno zaino. E’ realizzata in alluminio e, quando sarà in commercio, entro fine 2015, peserà sotto i dieci chili. L’invenzione è di Gianluca Sada, ingegnere trentunenne che ha realizzato il primo prototipo di bicicletta che passa dalle dimensioni di un comune ombrello a quelle di una normale bici da strada con ruote da ben 26 pollici. L'invenzione di Sada conferma la propensione degli inventori italiani per le due ruote: sia nel campo dei motori elettrici - con il motore che si applica ai pedali e quelle alimentate dal motore della lavatrice - che in quello della sicurezza dove sono stati creati l'allarme collegato allo smartphone, il cavo di ricarica che si trasforma in lucchetto, e il lucchetto integrato nel telaio. Il meccanismo di Sada semplice e veloce in pochi secondi permette di inforcare la bici o riporla in uno zaino di dimensioni comuni. Le ruote, grazie a un particolare design brevettato, non necessitano dei raggi, riducendo ulteriormente l'ingombro e mantenendo al contempo un diametro di tutto rispetto che permette di coprire agevolmente anche lunghe distanze. Grazie alla collaborazione con le Fonderie e Officine Meccaniche Tonno e con l'Incubatore Imprese innovative del Politecnico di Torino, la Sadabike è oggi una start-up innovativa. 
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Arriva la bici senza raggi, pieghevole   
Arriva la bici senza raggi, pieghevole
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Arriva la bici senza raggi, pieghevole
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La storia
Non è certo la prima, ma per ora è la più innovativa tra le bici super-trasportabili. La storia delle pieghevoli risale addirittura al 1878, quando il britannico William Grout decise ripensare il mezzo di spostamento per renderlo compatibile con il trasporto a mano. Da allora è passato più di un secolo di piccoli cambiamenti, ma nulla di veramente rivoluzionario: il ripiegamento era sempre più o meno macchinoso e la guida impacciata dalle dimensioni del mezzo. Il trade-off tra l'usabilità e la trasportabilità è rimasto un problema fino a pochissimo tempo fa, quando un giovane ingegnere di Battipaglia trapiantato per gli studi a Torino si è messo in testa di fare onore a Leonardo da Vinci. «L'idea è nata guardando un bimbo che giocava con uno di quei giocattoli che non si usano più: un vecchio balocco costituito da una semplicissima rotella spinta da un'asta. La ruota non aveva i raggi, da lì ho pensato che la chiave per risolvere il vincolo tra portabilità e usabilità fosse rivoluzionare il cerchione». 
 
Lo sviluppo
Affascinato dall'intuizione donatagli dal gioco del bimbo, Gianluca ha iniziato a buttare giù schizzi quasi per gioco; gli studi di ingegneria dell'autoveicolo hanno apportato poi più sostanza, fino al primo scoglio, convincere il suo relatore a supportare una tesi di laurea su un progetto che non coinvolgesse un automobile, ma "solo" una bicicletta. «All'inizio era un po' scettico, poi riconoscendo la sostanza dell'idea e la cura nello sviluppo mi ha appoggiato in pieno». Come funziona I copertoni sono supportati da un paio di cerchioni speciali, che permettono di eliminare i raggi. «Nelle bici tradizionali i raggi funzionano solo in trazione, quindi la bici è sostanzialmente 'appesa' alla metà superiore delle ruote. Io ho pensato semplicemente di spostare il fulcro, cambiando la sezione del cerchione con una forma particolare". Il telaio ha una forma a forbice che gli dona un tocco futuristico e che permette agli ingranaggi di richiudere la bici in pochi secondi. I riconoscimenti I primi riconoscimenti arrivano quando l’ordine degli ingegneri di Torino gli assegna il primo posto per il premio “IDEA-TO” come “migliore tesi di laurea a carattere innovativo». E Gianluca viene annoverato nei migliori 200 talenti d’Italia.
 
 


#54 Guest_deleted32173_*

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Inviato 21 luglio 2015 - 06:31

Pantofola

 

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Si sa di un funzionario della dinastia Song, Qu Zhou Fei (1135-1189), in Quanxi, una provincia della Cina, che ha descritto nel suo libro "Dai Wai Ling Da", due tipi di pantofole che vedeva in Jiaozhi (oggi Vietnam). Tutte due erano in fondo cuoio. Zhou ha anche osservato che queste pantofole erano esattamente come quelle di immagini Arhat (tra i budisti, qugli che hanno raggiunto il Nirvana).

 

 

Il soccus o socculus era un'antica calzatura, simile alla pantofola, utilizzata nel periodo dell'antica Roma.

 
Esistevano differenti tipi di soccus, adatti alle diverse circostanze della vita quotidiana, e della posizione sociale di chi le vestiva. All'interno delle città romane prendeva il nome di calceus, ed era utilizzato per le attività giornaliere, mentre la variante denominata pero era ad uso prevalente dei contadini, dei pastori e dei legionari, costituito da materiale di maggiore robustezza.
 
Generalmente utilizzato in città non con la toga, ma con il pallio.
 
Alcuni ne biasimarono l'uso da parte degli uomini, in quanto ritenevano che la calzatura fosse troppo femminile. Fu usata dagli attori comici, in netta opposizione al coturno, riservato alla tragedia.
 
 


#55 Guest_deleted32173_*

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Inviato 24 luglio 2015 - 06:44

LE POSATE
 
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Presso il Dipartimento di Antropologia dell'Accademia delle Scienze della California si può ammirare la collezione Rietz di Tecnologia Alimentare, che comprende quasi 1.400 articoli. La collezione porta il nome di colui che l'ha raccolta: Carl Austin Rietz, inventore e imprenditore nel settore alimentare, ha svolto molti lavori e le sue passioni personali sono state diverse come  lo sono state le sue carriere.
 
Le innovazioni di successo che ha apportato sono state  nel campo delle tecnologie di trasformazione alimentare che insieme al suo interesse per la cucina internazionale e la storia l'hanno portato a studiare l'esigenza fondamentale del nutrirsi.
 
 
Durante i suoi innumerevoli viaggi Rietz è andato alla ricerca di manufatti storici che  parlassero di come sono cambiati nel corso del tempo il cucinare e l'alimentarsi. La sua ricerca si è svolta trasversalmente tra molteplici culture e varie epoche storiche, dando sempre maggior importanza all' utilizzo degli oggetti rispetto ai materiali usati per costruirli.
Una gran parte di questa collezione è composta da posate, stoviglie, compresi set portatili per mangiare. Nella Collezione Rietz si possono vedere la storia e l'evoluzione di utensili comuni come forchette, coltelli, cucchiai e bacchette. E' possibile  visionare gli oggetti della collezione al link:
 
STORIA DELLA POSATERIA
Per millenni l'uomo ha usato solo le mani per mangiare, seduto a terra su stuoie, utilizzando ciotole di terracotta per zuppe e bevande e, raramente, rudimentali cucchiai di legno. Non esisteva la preoccupazione di sporcare tovaglie e vestiti e frequenti lavaggi delle mani in acque nelle quali venivano diluite essenze profumate ovviavano al problema dell'igiene. Ancora oggi questa pratica conviviale viene comunemente utilizzata in molte parti del mondo.
Con la diffusione della civiltà agricola e la nascita dei primi centri urbani l'uso di taluni attrezzi da cucina e da tavola prese lentamente a diffondersi in aree geografiche sempre più vaste e iniziarono a comparire le prime forme di galateo della tavola.
 
I primi utensili da tavola furono il cucchiaio e coltello.
Il termine cucchiaio deriva dal latino cochlea, chiocciola, proprio perché il guscio di questi animali fu il primo strumento naturale usato dall'uomo per portare i liquidi alla bocca.
Al tempo dei Greci, popolo civile per eccellenza, i cibi erano posti già sminuzzati davanti al commensale e l'unico "strumento" usato era la mano destra. Per i cibi caldi si ovviava al problema della scottatura "temprando con l'esercizio le dita". Tra una portata e l'altra le mani venivano lavate con abluzioni in acqua profumata data anche l'abbondanza, nelle corti e nelle case aristocratiche, di servitori, ancelle, coppieri e mescitori che provvedevano a tutte le esigenze degli ospiti.
 
Con i Romani dell'età imperiale comparvero le prime posate rese necessarie dalla passione per cibi che stuzzicavano l'appetito come ostriche, molluschi e frutti di mare. Il cucchiaio, simile a quello odierno, era di due tipi:
-il primo detto ligula (da lingua), aveva pala ovale e manico dritto o curvo; veniva usato per somministrare le salse della cucina romana.
-il secondo chiamato cochlear, aveva pala rotonda e piatta con manico dritto e appuntito; veniva utilizzato per scalzare il frutto dalla conchiglia e portarlo alla bocca o per consumare le uova.
Fatto per  lo più d'argento, il cucchiaio variava nella forma secondo le mode del momento e spesso aveva incisi motti e dediche augurali.
 
Nel IV secolo, come narra lo scrittore  Macrobio, comparve un cucchiaio speciale detto cyathus, della capacità di mezzo litro, utilizzato per versare il vino nelle coppe durante la parte finale del convivio.
Il cochlear dei trionfali banchetti, con il diffondersi del Cristianesimo, si trasformò in suppellettile sacra divenendo il cucchiaio di consacrazione presente ancora oggi nei riti greco-orientali.
Durante il Medioevo, per rispondere alle esigenze di lusso e raffinatezza dei signori, il cucchiaio era costruito da materiali preziosi come serpentino, cristallo, cornalina, argento, onice con il manico impreziosito di smalti e pietre preziose; riprendeva a essere tondeggiante e a crescere di dimensioni perché spesso veniva adoperato come fosse una coppetta ovvero preso tra le mani appoggiando i gomiti sulla tavola.
 
Alla fine del XVI secolo la forma del cucchiaio tornò a essere ovale e il manico ad allungarsi e  assottigliarsi.  Nell'arco di questo secolo la moda portò a un perfezionamento della posateria dato dalla facilità con cui le grandi gorgiere (fascia o collaretto in tessuto increspato o pieghettato che avvolgeva il collo delle donne) potevano sporcarsi di sughi e di cibo.  Fu così che nacquero  vari tipi di cucchiai: quelli da intingolo, da tè, da caffè, da cioccolato, da minestre, da punch; cucchiai traforati da zucchero, da olive in una serie di varie forme e dimensioni arricchite da decorazioni che accrebbero l'arte del decoro, soprattutto nel caso delle argenterie , divenendo veri e propri capolavori. Cambiò anche  il modo d'impugnare  questa particolare posata usando tre dita anziché stringerlo nel palmo della mano come si era fatto fino a quel momento.
I cucchiai da fragole e da uova alla coque, generalmente in osso, avorio o corno, comparirono invece nel XIX secolo insieme ai cucchiai da pappa per bambini che venivano fabbricati in argento per sfruttare il potere battericida di questo metallo prezioso.
In seguito all'affermarsi delle buone maniere, il cucchiaio assunse la forma odierna: più ovale e più piatto ai lati e con il manico più sottile al centro.
 
La storia della posate in metallo e soprattutto quella del coltello è legata all'evoluzione della metallurgia, a partire dall'età del Bronzo. La lama del coltello di epoca neolitica era provvista di un corto manico in osso o in legno e di una lama tagliente quasi sempre ricurva. Coltelli di ferro e bronzo con manico metallico o d'osso, sovente decorato con incisioni o inserimento di pietre preziose, appaiono numerosi in epoca greca e romana, utilizzati in modi diversi per la caccia, per la tavola, per la cucina, per cerimonie sacrificali.
Nel Medioevo il coltello assume grande importanza divenendo arma da caccia e da combattimento; si usava portarlo appeso alla cintura infilato in una apposita custodia.  Questo oggetto divenne personale al punto che ognuno arrivava a tavola portando il proprio coltello personale, lavorato e abbellito nei modi più svariati a seconda dei gusti e delle possibilità economiche del proprietario, col manico d'osso, d'avorio, di legno, di pietra dura, di tartaruga, di metalli vari, decorato con figure simboliche, grottesche o fantastiche, sovente con significati rituali.
Questa posata aveva la cima aguzza poiché serviva sia per tagliare che per infilzare i cibi da portare alla bocca; solo dal 1630 comincia ad avere la punta arrotondata.
 
In Italia fino dalla fine del Rinascimento i fabbricanti di coltelli sono rinomati per  l'eccellente qualità e l'estetica raggiunta: basti pensare agli splendidi esemplari conservati al museo Poldi-Pezzoli di Milano, come il coltello veneziano del primo Rinascimento col manico d'argento di raffinata eleganza o l'altro, fiorentino di gusto celliniano, col manico di argento dorato lavorato in foggia grottesca.
Il progresso del XVIII secolo portò all'uso di coltelli con manici di madreperla e d'argento, lavorati in forme così eleganti e funzionali che ancora oggi vengono utilizzate dalla coltelleria elegante che si ispira alla produzione del Settecento romano, veneziano e parigino.
 
La nascita e la diffusione della forchetta ha invece una storia ben diversa e più complessa. Nei millenni ci si è sempre serviti delle mani o di coltelli appuntiti per portare alla bocca il cibo. Nel Medioevo salse e grassi facevano da padroni alla tavola dei signori e sui visi e sulle mani dei commensali l'unto appariva frequentemente impregnando le loro vesti, tovaglie e salviette.
L'uso della forchetta produsse un enorme scandalo quando intorno al Mille la figlia dell'imperatore bizantino Cristiano IX, sposa del Doge Giovanni Orseolo II, venne a Venezia portando con sé una forchettina d'oro a due denti per mangiare: quando, nel 1005, la sfortunata giovane si ammalò di peste e ne morì, nobili e popolani veneziani stabilirono che questa era la punizione divina per tale oltraggiosa perversione conviviale.  La povera principessa non fu la sola ad usare la forchetta; anche la moglie bizantina del Doge Domenico Silvio, nel 1071, usava  a tavola forchette personali. Fino alla metà del Quattrocento, nella Firenze medicea popolata da letterati ed artisti d'ogni parte d'Italia, l'uso della forchetta veniva guardato con ostilità e considerato in qualche modo "trasgressivo", al punto che le forchette d'oro erano gelosamente tenute chiuse in forzieri più come cimeli di famiglia che come posate.
 
In Inghilterra nel 1297, nell'inventario di Edoardo I d'Inghilterra, vengono menzionate per la prima volta le forchette. Anche nei secoli successivi negli inventari di re e principi italiani, francesi e inglesi appaiono sempre più forchette d'oro, d'argento, di bronzo con preziose impugnature di avorio, cristallo, pietra dura.
Bisogna arrivare però al Cinquecento per respirare l'aria nuova che investì tutta la società urbana e determinò nuove condizioni di vita e nuovi stili comportamentali per trovare quindi improvvisamente diffuso l'uso delle posate a tavola, compresa la forchetta.
Nel 1574-75 il futuro re Enrico III di Francia, figlio di Caterina de' Medici, durante un viaggio in Italia,  fu notato per l'uso ostinato di posate e soprattutto di forchette. Questo provocò un'ironica satira di Arthur Thomas che nella sua Description de l'Isla des Hermaphrodites  canzonò l'uso di tale "strumento biforcuto".
 
Nel 1581 Michel de Montaigne compì il suo viaggio in Italia rilevando, tra le altre abitudini, l'uso quotidiano della forchetta individuale; ospite a Roma del Cardinale De Sans, lo scrittore francese constatò la presenza in tavola di cucchiaio, coltello e forchetta, sistemati tra due salviette insieme al pane, al posto di ciascun commensale.
Si cominciò dunque a utilizzare la forchetta perché usare le dita delle mani veniva considerato da "cannibali", come un anonimo redattore scrisse nel 1589 nel suo libro The Habits of Good Society dove definì incivile  usare le mani a tavola. Fu questa un' inversione di tendenza in linea con le nuove regole della courtoisie, secondo le quali era estremamente sgradevole mostrarsi in società con le mani sporche e unte di sughi, condizione che fino ad un secolo prima non avrebbe destato alcun commento. Con l'avvento del Rinascimento servirsi delle  dita per mangiare cominciò a venire considerato oltraggioso, incivile, barbaro e condannabile.
 
Nel resto dell'Europa rimasero varie resistenze. Chi era particolarmente rigoroso e austero, considerava l'uso delle posate come un eccesso di lusso o il consenso a qualche peccaminosa debolezza di carattere. Addirittura Anna Maria d'Austria, figlia di Filippo III di Spagna, sposa di Luigi XIII di Francia, impose a corte una regola di rigidità quasi puritana, vietando tra l'altro l'uso dell' "inutile" forchetta in tavola oltre che dell'argenteria; nel 1629 il divieto fu esteso con un'ordinanza a tutta la popolazione di Francia. Alla corte di Vienna si usò immergere le dita nel piatto di portata fino al 1651 mentre in Inghilterra non si registra l'uso della forchetta sino al 1660. In Francia Luigi XIV, il re Sole, alla fine del '600 caccia dalla sua tavola il duca di Borgogna colpevole di dare il cattivo esempio ai bambini per aver estratto dalla tasca una elegante forchettina.
 
Fino a una certa epoca le trasformazioni dei costumi sociali e della buona educazione si sono succedute molto lentamente, affermandosi poi grazie allo sviluppo della civiltà e all'estendersi delle consapevolezze culturali, in seguito alle scoperte geografiche, scientifiche e tecniche dei secoli.
L'uso diffuso della forchetta giunge oltre la metà del '700, quando apparvero gli spaghetti (vermicelli). Pare infatti che soprattutto per agevolare la presa dei "fili di pasta", il ciambellano di re Ferdinando IV di Borbone abbia portato a quattro i denti della posata.
 
 


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Inviato 27 luglio 2015 - 01:41

IL COLORE DEGLI OCCHI

 

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L'eterocromia è la caratteristica somatica di quegli individui che presentano differente colorazione di due parti del corpo omologhe. Solitamente si intende nello specifico la differente colorazione delle iridi, trattandosi del caso più comune di eterocromia[1]. Nel caso di colori differenti nello stesso occhio si parla invece di mosaicismo somatico.
 
Solitamente l'eterocromia ed il mosaicismo somatico delle iridi sono caratteristiche individuabili sin dalla nascita, sebbene possano essere acquisite anche in seguito. Una volta si credeva che il colore degli occhi dipendesse da un solo gene, ma studi di genetica hanno rivelato che il colore degli occhi è poligenico, cioè dovuto all’interazione di diversi fattori. In generale, il colore è determinato dalla quantità di melanina presente nell’iride, che la pigmenta. Se la quantità di pigmento è scarsa o nulla gli occhi sono blu, mentre nel caso opposto gli occhi assumono una colorazione marrone.
 
La melanina è anche responsabile della colorazione della pelle: questo è il motivo per cui persone con pelle molto chiara tendono ad avere occhi chiari, mentre persone di carnagione più scura hanno occhi scuri. I bambini, in particolare, mostrano fino a circa tre anni di età occhi di colore chiaro, poiché la produzione di melanina non è sufficiente da poter fornire il colore finale.
 
Quando si ha una quantità di melanina diversa all’interno dell’iride dei due occhi si può verificare il caso di eterocromia. L’eterocromia è visibile in alcuni casi anche all’interno di una sola iride, se le singole cellule producono quantità differenti di pigmento. In questo caso si parla di mosaicismo somatico. Questo fenomeno deriva dal fatto che gli organismi multicellulari (come gli esseri umani) sono originati da una singola cellula. Quindi, ogni cellula ha all’interno lo stesso patrimonio genetico. Tuttavia, se una mutazione che influenza la produzione di melanina colpisce una cellula che originerà cellule dell’iride di un occhio, ma non le cellule dell’altro occhio, le due iridi saranno eterocromatiche.
 
L'eterocromia non è una caratteristica prevalentemente umana, ma si ritrova spesso nel 5% di alcuni animali come il cane, il gatto (particolarmente nella varietà Van kedi del Turco Van in cui l'eterocromia fa parte del corredo genetico standard), il cavallo. L’eterocromia negli esseri umani è un fenomeno che riguarda meno dell'1% delle persone. Normalmente è una semplice curiosità cromatica di origine genetica, altre volte può essere causata da traumi o da malattie oculari come la sindrome di Waardenburg o la Ciclite eterocromica di Fuchs.
 
 


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Inviato 30 luglio 2015 - 05:03

Pattini a rotelle

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1743: Prima apparizione di pattini a rotelle durante un'esibizione su un palco londinese. L'inventore di questi pattini si è perso nella storia.
1760: Invenzione dei pattini a rotelle da parte di John Joseph Merlin, che realizzò una versione primitiva dei pattini in linea con delle ruote in metallo.
1818: Primo progetto brevettato di un pattino a rotelle, in Francia ad opera di M. Petitbled. Questi pattini erano molto simili agli odierni pattini in linea, ma non erano molto manovrabili, consentendo solo il movimento rettilineo e delle curve ad ampio raggio.
Per tutto il XIX Secolo gli inventori continuarono nel migliorare la progettazione dei pattini.
 
Una pubblicità di inizio XX Secolo che mostra un modello da calzare sopra le scarpe.
1863: Il pattino con le quattro ruote disposte a coppie, fu per la prima volta creato a New York da James Leonard Plimpton nel tentativo di migliorare uno dei suoi precedenti progetti. Il pattino si appoggiava su un sistema a perno che usava un cuscinetto di gomma, il quale consentiva al pattinatore di curvare semplicemente piegandosi di lato. Fu un enorme successo, tanto da portare all'apertura della prima pista da pattinaggio nel 1866 a Newport, Rhode Island con l'aiuto di Plimpton. Il progetto del pattino quad consentì curve più facili e maggior manovrabilità, imponendolo come dominatore del mercato per più di un secolo.
1876: William Brown a Birmingham in Inghilterra brevettò il suo progetto per le rotelle. I suoi sforzi erano diretti a rendere indipendenti le coppie di ruote dall'asse che le congiungeva. Brown lavorò a stretto contatto con Joseph Henry Hughes, detentore del brevetto dei cuscinetti a sfera per le biciclette. Questi due uomini sono perciò i creatori delle moderne ruote da pattinaggio e da skateboard. Questo fu sicuramente il più importante passo in avanti nell'utilizzo dei pattini come un piacevole passatempo.
1876: Viene brevettato il freno a tampone. Questo permise di fermarsi rapidamente semplicemente premendo la punta del pattino contro l'asfalto. Il freno a tampone è utilizzato tuttora sui pattini artistici e su quelli in linea, anche se posizionato sul tacco.
1880: I pattini venivano prodotti in massa in America. Fu il primo di molti boom dello sport.
1884: Levant M Richardson brevettò l'utilizzo di cuscinetti a sfera in acciaio per ridurre l'attrito, consentendo il raggiungimento di velocità maggiori con minor sforzo.
Il design del pattino artistico restò praticamente immutato, e rimase il modello di riferimento fino alla fine del XX Secolo.
1979: Scott Olson e Brennan Olson di Minneapolis, Minnesota incapparono in un paio di pattini in linea creati negli anni sessanta dalla Chicago Roller Skate Company e, intuendo le potenzialità per allenarsi a hockey su ghiaccio senza il ghiaccio, riprogettarono i pattini utilizzando materiali moderni e una scarpa da hockey. Un paio di anni dopo Scott Olson iniziò a pubblicizzare i pattini e diede vita all'azienda Rollerblade Inc.
Verso la fine degli anni ottanta e all'inizio dei novanta, i pattini Rollerblade si rivelarono così ben riusciti da ispirare altre marche a realizzare dei modelli simili e il pattinaggio in linea divenne più popolare di quello tradizionale. Il termine Rollerblade entrò nel gergo comune, tanto da arrivare ad indicare i pattini in linea, un po' come avvenne ad esempio per lo scotch.
 
Durante il periodo iniziale la scarpetta era normalmente di plastica rigida, simile agli scarponi da sci. Verso il 1975 la scarpetta morbida fece la sua comparsa, e aiutò a promuovere l'utilizzo del pattino come strumento per il fitness. Nei primi anni 2000 l'uso della scarpetta rigida fu relegato a discipline più particolari, come l'aggressive o il freestyle
 
 


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Inviato 01 agosto 2015 - 05:34

La pittura

 

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I dipinti più antichi sono stati rinvenuti nella Grotta Chauvet in Francia: la loro realizzazione è databile a circa 32.000 anni fa. Sono realizzati con ocra rossa e pigmento nero, e mostrano cavalli, rinoceronti, leoni, bufali e mammut. Ci sono esempi di pittura rupestre praticamente in tutto il mondo.

 
Il mito greco indica la nascita della pittura nella città di Delfi.
 
La storia della pittura è una branca della storia dell'arte che si occupa di dipinti e, più in generale, di opere d'arte bidimensionali realizzate con tecniche legate al disegno e alla stesura di colori.
 
Dalla preistoria fino al mondo contemporaneo, ha rappresentato una continua tradizione tra le più diffuse e significative nell'ambito delle arti figurative, che abbraccia un po' tutte le culture e i continenti.[1] Fino al XX secolo, in Europa e nei paesi da essa influenzati, la rappresentazione pittorica ha avuto principalmente soggetti "figurati", cioè rappresentanti caratteristiche e attività umane, tutt'al più temi religiosi, simbolici e trascendenti, mentre nel XX secolo si sono sviluppati approcci più astratti e concettuali, con la sperimentazione di nuove tecniche in ricerca di nuovi orizzonti.
 
Lo sviluppo della pittura orientale ha avuto un corso proprio, parallelo a quello occidentale, nonsenza però punti di contatto, soprattutto a partire dell'evo moderno.[2] L'arte africana, islamica, indiana,[3] cinese, e giapponese[4] hanno avuto tutte influenze significative sull'arte occidentale e viceversa.[5]
 
La pittura ha avuto molti cambiamenti dal punto di vista della tecnica, a partire dalle pitture parietali rinvenute in Egitto, realizzate con pigmenti naturali, passando all'affresco, tecnica utilizzata per diversi secoli, in particolar modo nella pittura religiosa occidentale. Nelle rappresentazioni orientali, invece, negli imperi delle grandi dinastie cinesi e dinastie giapponesi, si era soliti utilizzare tessuti e seta come supporti, colorati con inchiostro. Si passa poi alla tempera su legno, in epoca tardo-medioevale in Italia e in Spagna, dove si era soliti rappresentare soggetti religiosi. Nel Quattrocento iniziò la diffusione del colore ad olio, soprattutto da parte dei pittori fiamminghi, in particolare da Jan van Eyck, considerato l'iniziatore di questa tecnica. Nel corso di diversi secoli la tecnica dell'olio rimase, ma rappresentata su diversi supporti, come legno, carta, masonite e tele; permase fino al XXI secolo, durante il quale comparvero i primi prodotti industriali, come i colori acrilici, caratterizzati da tonalità più accese. I colori si ottengono inizialmente macinando le terre, sono presenti le ocre gialle e rosse, nei secoli si aggiungono alla tavolozza nuovi pigmenti, questo dipende dalla reperibilità della materia prima. Il blu ad esempio era raro e quindi costosissimo in Italia: si otteneva pertanto dalla triturazione del lapislazzulo.
 
Gli impasti per ottenere i colori si arricchiscono e anche l'imprimitura del supporto contribuisce alla resistenza dell'opera e alla luminosità. Le imprimiture delle tavole servono a rendere l'assorbimento dei colori più omogeneo e a fissarsi meglio, Le vernici finali, ottenute da resine proteggono il lavoro e saturano i colori rendendoli più “carichi“.
 
Cambia il modo di inserire le figure nello spazio ad esempio con la nascita della prospettiva con punto di fuga all'infinito.
 
Erodoto raccontava come la pittura fosse nata come disegno che ricalcava un'ombra su una parete, fatta da una ragazza per fissare le fattezze del suo uomo in partenza per la guerra. In questa leggenda si possono già cogliere alcune delle carettristiche base della pittura: il suo basarsi su un segno, la finalità di fissare l'aspetto delle cose, e la sua relaitiva semplicità, rispetto ad altre possibili forme artistiche.
 
Le testimonianze più antiche di pittura, legate all'arte rupestre preistorica, mostrano scene di caccia con esili figurette tracciate tramite sfregamento di una pietra o di un tizzone su una parete rocciosa, a cui poi si aggiunsero i colori impiegando varie terre colorate e/o pigmenti di origine per lo più vegetale. La rappresentazione di persone e animali segue delle regole intuitive, basate sulla sovrapposizione e il collocamento a varie livelli dei soggetti, in modo da dare idea di un'azione sviluppata nel tempo e nello spazio, in maniera non molto diversa da quello che fanno i bambini disegnando.
 
I ritrovamenti nelle grotte di Lascaux risalgono al 15000 a.C.; le figure umane erano stilizzate, filiformi, mentre gli animali erano voluminosi, anche perché queste immagini erano legate a scopi propiziatori per la caccia, con significato magico-religioso, auspicavano abbondanza. Nella grotta del Pech-Merle, nel dipartimento del Lot, in Francia, si vedono impronte di mani ottenute soffiando il colore e lasciando una silhoette neutra in una macchia di colore.
 
Pittura orientale
 
La pittura cinese è una delle più antiche tradizioni artistiche continuative in tutto il mondo. I primi dipinti non erano rappresentativi, ma ornamentali, e consistevano in simboli o disegni, piuttosto che immagini. Inizialmente, la ceramica era dipinta con spirali, linee, punti o animali. Fu solo durante il periodo dei regni combattenti (403-221 aC) che gli artisti iniziarono a rappresentare il mondo che li circondava.
 
La pittura giapponese comprende una grande varietà di generi e stili, come una lunga storia di sintesi tra l'estetica dei nativi giapponese e l'adattamento alle correnti importate.
 
La storia della pittura coreana è datata al circa 108 dC, quando appare per la prima volta come una forma indipendente. Tra quel tempo e le pitture e gli affreschi che compaiono sulle tombe della dinastia Goryeo non c'è stato molto sviluppo, tanto che fino alla dinastia Joseon l'influenza primaria era ancora la pittura cinese, anche se raffigurante paesaggi coreani, temi buddisti e sulla osservazione celeste, in linea, quest'ultimi, con il rapido sviluppo di astronomia coreana.
 
Nell'arte egizia le pitture realizzate nelle tombe, in rapporto alla prosecuzione della vita del defunto nel mondo ultraterreno. Altre pitture sono realizzate per la celebrazione delle imprese dei faraoni. La pittura si mescola al bassorilievo, spesso colorato e dipinto, e alla scrittura geroglifica. Le linee sono rigide e le figure statiche, sempre rappresentate di profilo ad eccezione degli occhi e delle spalle che sono frontali. Tra i colori utilizzati dagli artisti egizi compare già dall'Antico Regno il (blu egizio), uno dei pigmenti artificiali più antichi prodotti dall'uomo. Il suo uso si estese ben oltre i confini geografici e temporali dell'Antico Egitto, diventando uno dei pigmenti più affermati dell'antichità.
 
Nell'arte cretese sono arrivate fino a noi decorazioni e scene di danze e di giochi rituali: nell'affresco risalente al 1500 a.C. raffigurante la Taurokatapsia (dove l'acrobata, per dimostrare la sua superiorità rispetto alle forze della natura doveva saltare sulla schiena di un toro), le linee sono morbide e curve, anche le figure sono disposte in modo leggermente obliquo, accentuando l'effetto del movimento.
 
Anche nell'arte etrusca si osserva una maggiore dinamicità, una moltitudine di linee curve rendono la figura più naturale.
 
Pittura greca e romana
Il greci furono la prima popolazione a portare un pieno svolgimento all'arte pittorica, ponendosi il problema della luce, dello spazio, del colore, delle variazioni di tono e degli effetti della tecnica (smalti, impasto, velature...). Tali questioni vennero affrontate e risolte nel V secolo a.C. e vennero sviluppate documentatamente nel IV secolo.
 
Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia, narra della sfida tra i pittori Zeusi e Parrasio: la disputa riguardava chi dei due fosse il migliore nell'imitazione della natura. Il primo mostrò il suo affresco raffigurante dell'uva e alcuni uccelli andarono a beccarla, poi toccò al secondo e i presenti gli chiesero di spostare la tenda per mostrare il suo lavoro: poi capirono che aveva vinto perché la tenda era appunto dipinta: mentre il primo aveva ingannato degli animali il secondo aveva ingannato l'occhio dei presenti, dimostrando la sua superiorità tecnica.
 
Per la produzione durante l'ellenismo abbiamo scarsa documentazione, ma i pochi resti suggeriscono che i problemi pittorici vennero portati avanti, con uno svolgimento simile per molti versi a quello della scultura, verso una piena libertà tecnica e spaziale. La libertà di tocco e di pennellata di quel periodo ha fatto parlare, facendo un parallelismo con la civiltà moderna, di "impressionismo".
 
La grandissima maggioranza delle pitture greche ci è nota solo da frammenti, ricostruzioni a partire dalle fonti letterarie, riflessi in altre culture (come quelle etrusca) e qualche copia romana (anche a mosaico). Un singolare reperto è la tomba del Tuffatore, a Paestum, unico nel suo genere.
 
La ricostruzione della pittura greca monumentale tramite la ceramografia (opere realizzate sui vasi) è un'operazione difficile ma ampiamente praticata, che porta però a risultati discutibili. Federico Zeri, a titolo di esempio, paragonava il lavoro di questi studiosi a coloro che volessero capire la pittura monumentale di Raffaello e di Michelangelo cercandone gli echi nella produzione dei vasai di Deruta o Gubbio.
 
Pittura nel Medioevo
 
Chiara di Assisi è ricevuta nell'ordine da San Francesco.
La pittura medievale si sviluppa a partire dalle forme proprie dell'arte tardoantica: immagini sempre più ieratiche e simboliche, riflesso di una sempre più profonda concezione della spiritualità, fanno la loro comparsa già dal IV secolo nelle catacombe di Roma, ma anche nei mosaici di Santa Costanza o di Santa Maria Maggiore. Le immagini sono tratte dal repertorio cristiano, la cui spiritualità condiziona in maniera fondamentale i soggetti. Ad esempio il concilio di Efeso del 431 che definì Maria come la Theotokos, la Madre di Dio, dà lo spunto alle prime immagini ufficiali della Vergine. Occorre tener presente che se la data del 476 della caduta dell'Impero romano d'Occidente è stabilita come l'inizio del Medioevo, questo non si può applicare alla lettera per quanto riguarda la pittura: infatti esiste continuità fra l'arte prima e dopo tale data.
 
È con Bisanzio che va definendosi sempre di più la pittura medievale: l'arte bizantina (330-1453) da un lato è solo un aspetto dell'arte medievale, ma dall'altro ne è l'asse portante. Le sue forme, canonizzate in seguito allo scisma iconoclasta dal secondo concilio di Nicea del 787 furono quelle universalmente diffuse in tutto il mondo cristiano, seppure con accezioni regionali diverse di volta in volta, in oriente come in occidente. La differenza di ricezione degli atti del concilio di Nicea però, diede origine a ciò che separò poi in modo così netto la pittura delle due parti dell'Europa: già con i Libri Carolini di Carlo Magno (VIII secolo) la pittura si delineava in occidente come mera illustrazione dell'evento biblico. Le immagini delle chiese diventano biblia pauperum, la bibbia dei poveri, nelle quali gli illetterati possono comprendere ciò che l'analfabetizzazione rende loro impossibile leggere nelle Scritture. La pittura delle chiese o delle iconostasi diventa quindi una decorazione degna di rispetto, ma non propriamente "arte sacra" come invece rimane l'icona in oriente. Qui le sante immagini vengono venerate come Presenza in assenza della persona rappresentata: per questo gli orientali ancora oggi venerano grandemente le immagini baciandole e inchinandovisi davanti.
 
Pur con una diversità basilare di interpretazione dell'immagine dipinta, l'oriente e l'occidente restano uniti nelle forme pittoriche fino alla fine del Duecento, influenzandosi a vicenda, vivendo rinascenze del classico o evoluzioni di tipo più simbolico. Importante menzionare in questo contesto le celebri croci dipinte e le pale d'altare di Coppo di Marcovaldo, Giunta Pisano, Cimabue. In seguito, a partire dall'Italia accade che, a causa di mutate condizioni socio-economiche, ma soprattutto a causa di uno sviluppo teologico e filosofico che rimarca sempre di più la differenza fra oriente e occidente, l'ennesima rinascenza classica della scuola romana e fiorentina (Pietro Cavallini, Jacopo Torriti, Giotto di Bondone) prende una piega definitiva e compie un passo decisivo verso forme più naturalistiche. La cappella del Sancta Sanctorum della Scala Santa di Roma, ma soprattutto il ciclo di Assisi sono la dimostrazione piena di come nuove istanze culturali, teologiche e filosofiche modifichino la concezione della corporeità e del rapporto col sacro nell'immagine dipinta.
 
Con il Gotico, inaugurato in Italia dalle scuole fiorentina e senese, avviene la fase terminale della pittura medievale verso forme sempre più naturalistiche, sempre più filosofiche e progressivamente sempre meno teologiche, fino al Rinascimento.
 
Pittura rinascimentale e manierista
 
Masaccio, Battesimo dei neofiti (dettaglio), Cappella Brancacci, Firenze
Il Trecento è artisticamente legato all'evoluzione di importanti fattori politico-sociali e dalla determinante presenza di alcuni artisti che nei primi decenni realizzano nelle loro opere un nuovo concetto di spazio e di contatto con la realtà. Tali aspetti si manifestano nella tendenza ad una "pittura di Storie" che trapassa successivamente in una specie di "cronaca illustrata". Con la metà del secolo si accentuano sia in Toscana che nell'Italia settentrionale quelle componenti decorative che pongono attenzione verso il colore e l'eleganza formale. L'attività di Giotto in Toscana, in Romagna, a Padova e in Lombardia risulta determinante per lo sviluppo della pittura di tali zone, dove parallelamente si deve rilevare l'incrocio con altre tendenze che interferiscono sul "giottismo" di base. Per gli artisti fiorentini di Giotto il fattore di maggiore interesse è l'architettura, che non passa inosservata nemmeno a Siena, dove l'ambiente più conservatore è legato alla tradizione linearistica di lontana scendenza bizantina. Ambrogio Lorenzetti è colui che tenta la "sintesi tra le due culture", e allo stesso modo influenza l'ambiente fiorentino sotto il profilo del colore e dell'eleganza lineare. A Firenze il "verbo giottesco" è manifesto nell'opera di scolari stessi del maestro (Stefano, Maso, Giottino, Taddeo Gaddi), che evidenziano in modo particolare le strutture architettoniche. Più intento nello sviluppo degli aspetti coloristico-lineari, suggestionato dal clima senese, è Bernardo Daddi. Un multiforme e elegante artista è pure Andrea di Cione, detto l'Orcagna, che nella seconda metà del Trecento rappresenta i nuovi gusti della ricca e affermata borghesia fiorentina, riconducibile all'intonazione novellistica del Sacchetti.
 
Il Quattrocento si aprì in tutta Europa all'insegna del gusto raffinato e cortese del tardo gotico. Le prime novità verso una rappresentazione meno idealizzata e più permeata della realtà si registrarono nel Ducato di Borgogna e nella scuola di miniatura parigina, da cui presero spunto i nuovi indagatori del reale della scuola fiamminga: Jan van Eyck, Rogier van der Weyden, Robert Campin.
 
 
Andrea Mantegna, Cristo morto (1475-1478 circa), Milano, Pinacoteca di Brera
La prima rivoluzione rinascimentale in pittura si deve a Masaccio a Firenze. Amico di Filippo Brunelleschi e di Donatello, già nell'opera giovanile del Trittico di San Giovenale (1423) mostrò di conoscere la prospettiva lienare centrica, messa a punto a Brunelleschi pochi anni prima, verso il 1416-1417. Veri punti di rottura con la tradizione precedente furono gli affreschi della Cappella Brancacci (1424-1427 circa) e della Trinità (1426-1428 circa), dove alla salda costruzione prospettica si univa una rinnovata ricerca di realismo e un rifiuto degli elementi decorativi (l'"ornato"). Masaccio morì molto giovane, ma la sua lezione non andò perduta, venendo ripresa dai primi allievi, tra i quali Filippo Lippi, e in seguito da nuovi maestri (Paolo Uccello, Beato Angelico, Andrea del Castagno), che stemperarono le novità con elementi della tradizione precedente e con le prime influenze dell'arte fiamminga, giungendo a risultati che riscossero un ampio consenso di pubblico.
 
Nel frattempo si sviluppò a Firenze una nuova corrente detta della "pittura di luce", che ebbe come principale esponente Domenico Veneziano. Dell'artista si conservano oggi relativamente poche opere, ma il suo esempio ebbe un ruolo fondamentale nella formazione di Piero della Francesca, il primo artista a unire una salda costruzione prospettica con una luce chiarissima che intride i colori e schiarisce le ombre, a cui aggiunse una semplificazione geometrica delle figure. I suoi capolavori, caratterizzati da un misuratissimo equilibrio sospeso tra la matematica e sentimento, vennero prodotti durante i suoi viaggi, diffondendo le novità fiorentine oltre i confini, soprattutto nel nuovo centro di irradiazione culturale Urbino. L'altro grande esportatore del Rinascimento fiorentino fu Donatello che, pur essendo uno scultore, nel suo fondamentale soggiorno a Padova (1443-1453) influenzò così profondamente la scuola pittorica locale da generare una nuova rivoluzione. Nella bottega padovana di Francesco Squarcione, amante del revival classico, si formarono i più futuri maestri di tutta l'Italia settentrionale: Andrea Mantegna per Mantova, Cosmè Tura per Ferrara, Vincenzo Foppa per la Lombardia, Carlo Crivelli per le Marche, Michael Pacher per l'arco alpino. Ciascuno di questi artisti fu all'origine di scuole pittoriche che elaborarono declinazioni originali del Rinascimento, dando al Quattrocento italiano quella straordinaria ricchezza di sfaccettature che ne è propria.
 
 
Giovanni Bellini, Pala di Pesaro (1475-1485 circa)
Contemporaneamente a Venezia Giovanni Bellini, sull'esempio di Antonello da Messina (a sua volta influenzato da Piero), rinnovò la scuola locale, ancora legata all'esempio bizantino e gotico, sviluppando una maggiore sensibilità al colore e al paesaggio, con accenti intensi sull'umanità dei personaggi e sul connettivo atmosferico che lega tutti gli elementi della rappresentazione.Ciò fu alla base dei successivi sviluppi della pittura "tonale" di Giorgione, Cima da Conegliano e Tiziano.
 
A Firenze invece la nuova generazione di artisti seguì l'esempio della produzione matura di Filippo Lippi, ponendo l'accento soprattutto sull'armonia del disegno e sui giochi lineari nei contorni. A questa corrente si riferirono Antonio del Pollaiolo, maestro nella rappresentazione drammatica del movimento, Sandro Botticelli, interprete dell'ideale dell'armonia laurenziana, e Filippino Lippi, in cui la linea genera già quelle bizzarrie che preludono alle inquietudini Manierismo.
 
Gli ultimi decenni del secolo vedono la formazione di nuovi linguaggi che, grazie all'attività di autentici geni, aprono la strada alle novità del secolo successivo: il dolcissimo sfumato di Leonardo da Vinci, il colorismo e la monumentalità isolata delle figure di Pietro Perugino (che fu maestro di Raffaello), il titanismo del giovane Michelangelo.
 
Col nuovo secolo la scena fiorentina passa in mano a nuovi maestri "eccentrici", che partendo dall'esempio dei geni della stagione precedente, arrivano a una nuova sintesi formale. Andrea del Sarto prima, Pontormo e Rosso Fiorentino poi generano uno stile cerebrale e tormentato, da cui si sviluppò, una generazione dopo, il Manierismo vero e proprio, quello di Vasari, Francesco Salviati e Jacopino del Conte, che si diffuse in tutta Europa. La presa di coscienza del valore creativo dell'artista portò alla nascita delle prime accademie e della storiografia artistica.
 
Pittura barocca e rococò[modifica 
Caravaggio, I bari. Olio su tela, 91,5 x 128,2 cm. 1594-1595, Fort Worth (Texas), Kimbell Art Museum.
Già a partire dalla fine del Cinquecento prende le mosse da Bologna, con i Carracci, una riflessione pittorica che rielabora il dato reale in chiave classicista. Parallelamente Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, recupera una visione della realtà molto personale, estremamente legata al dato ottico incapace però di comprendere la realtà spirituale, fatto questo che si dimostra essere il filo conduttore della sua parabola umana ed artistica. Dell'epoca barocca possiamo ricordare anche lo spagnolo Diego Velázquez.
 
Nel Settecento l'attenzione per il paesaggio si accentua, e si assiste a uno snellimento notevole delle rappresentazioni. Si assiste ad una ripresa di istanze classicistiche (Neoclassicismo): si riprendono storie tratte dalla mitologia a cui la pittura dell'epoca è strettamente legata. A Venezia nasce una scuola di vedutisti italiani: il Canaletto, Bellotto e Guardi; a Roma Giovanni Paolo Pannini. La pittura di veduta è caratterizzata da un forte grado di aderenza al vero, una grande vastità degli orizzonti e un ampio uso della prospettiva.
 
Pittura nel XIX secolo
 
Claude Monet - Impression, soleil levant
Nell'Ottocento si abbandona l'arte classica: l'artista si svincola dalle regole tradizionali. I temi della campagna e del lavoro sono quelli che più interessano i pittori. All'inizio del secolo si sviluppa la corrente del Romanticismo, un moviemento di origini tedesche, che si estende anche in Inghilterra, a seguito del declino dell'Illuminismo. Pittori come Géricault, Delacroix e Caspar David Friedrich emergono come importanti artisti, mentre in Inghilterra William Turner dà un'impronta personale al sentire visivo romantico.
 
Intorno al 1840, in Francia nasce il realismo che vede in Gustave Courbet il suo principale esponente. Si ricordano inoltre le importanti le figure di Honoré Daumier, Jean-François Millet e Gustave Caillebotte.
 
 
La camera di van Gogh, olio su tela, 72x90cm, 1888, Van Gogh Museum, Amsterdam
Le esperienze del realismo e del romanticismo furono indispensabili per una nuova corrente artistica che ruppe definitivamente gli schemi del passato: l'Impressionismo. Nato a Parigi nella seconda metà del secolo, il movimento fu caratterizzato da un interesse rivolto al colore piuttosto che al disegno, dalla riscoperta della pittura di paesaggio (già ripresa precedentemente da molti pittori, tra cui Camille Corot) e della soggettività dell'artista che prediligeva la rappresentazione delle sue emozioni a discapito dell'importanza del soggetto. I dipinti di questi artisti ribelli alla convenzioni, tra cui Monet, Degas, Manet, Cézanne, Renoir, Morisot, erano realizzati, spesso en plein air, con rapidi colpi di spatola, creando un alternarsi di superfici uniformi e irregolari. Oltre al colore, la luce fu particolarmente studiata.
 
La rivoluzione portata dai pittori impressionisti, aprì le porte a nuove correnti, come il post-impressionismo, con i dipinti di Paul Gauguin, l'espressionismo, con Edvard Munch e Vincent van Gogh e il Puntinismo, che in Italia sarà chiamato Divisionismo, con Pellizza da Volpedo, Paul Signac e Georges Seurat.
 
Pittura del XX secolo
 
In Cinque donne per strada, Kirchner rappresenta delle prostitute
La grande "conquista" del Novecento, è proprio l'astrazione: l'artista non dipinge più ciò che vede (questo ruolo è lasciato alla fotografia), ma ciò che sente dentro, nella sua interiorità. In quest'ambito si analizzano con molta attenzione il fenomeno della percezione visiva ed il mutevole effetto che provocano i vari colori sull'osservatore. Distinguiamo nel Novecento due grandissimi filoni di arte figurativa: l'astrattismo, contrapposta a una pittura ancora figurativa, nonostante nella maggior parte dei casi non ricerchi la rappresentazione fotografica della realtà. Il Novecento è stato un secolo che ha visto innumerevoli artisti, esponenti di diverse avanguardie, relative all'arte pittorica. Agli inizi del secolo, iniziano ad assumere una propria identità gli artisti che hanno ereditato la lezione dell'impressionismo. Di questi ricordiamo i Fauves, gruppo francese di artisti, il cui più grande esponente fu Henri Matisse; i fauves possono essere considerati i primi veri avanguardisti del novecento. Tradizionalmente si tende erroneamente a inglobare questo gruppo in quello degli espressionisti, legati invece alla scuola tedesca, la quale poetica è profondamente differente da quella fauvista. Il gruppo degli espressionisti, chiamato in Germania Die Brucke è in certi sensi anche contrapposto al movimento francese: questi ultimi raffiguravano l'armonia, la gioia di vivere, tradotta in colori particolarmente accesi e pennellate molto dolci (quindi più vicini agli impressionisti in questo senso), mentre i tedeschi rappresentavano la società dell'epoca, spesso con denuncie sociali, legate a problemi come la prostituzione: tutto ciò tradotto in pennellate particolarmente dure, forme spigolose e colori contrastanti tra di loro. Un importante esponente dei Die Brucke fu Ernst Ludwig Kirchner, autore di capolavori come Marzella, Cinque donne per strada e Scena di strada berlinese. Nel 1907 Pablo Picasso disegnò il quadro che ha fatto da spartiacque dall'antichità alla modernità: Les demoiselles d'Avignon. Oltre per il soggetto raffigurato di cinque prostitute, già visto nell'opera di Kirchner, la rivoluzione di quest'opera risiede nella composizione, che rompe definitivamente con i canoni classici. Le figure sono spigolose, con volti che riprendono le maschere africane e sembrano incastrate nella piattezza dello sfondo. Questo quadro è il primo quadro della corrente cubista, altra grande avanguardia del Novecento. Ebbero un ruolo fondamentale nella storia della pittura anche i futuristi, la cui poetica era relativa alla rottura totale con il passato e a studi della dimensione tempo. Grandi esponenti furono Umberto Boccioni e Giacomo Balla. Carlo Carrà ebbe un importante ruolo nella scuola futurista, ma si dissociò in parte, seguendo poi la corrente metafisica, rappresentata da Giorgio de Chirico.

 

 

 

 

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Inviato 05 agosto 2015 - 05:57

Le stufe

 

 

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L’origine delle stufe ad olle di Sfruz risale al lontano periodo romano: nel 15 a.C Ottaviano Augusto affidò a Nero Claudius Drusus il compito di occupare le Alpi, per portare a termine la conquista della Gallia Cisalpina. Durante questa impresa Druso e la sua legione si accamparono a Vervò, un paese a pochi chilometri da Sfruz. Furono loro a scoprire, proprio a Sfruz, la presenza e l’abbondanza di argilla, quell’elemento naturale presente nel terreno e che fu la materia prima per la costruzione delle stufe. I Romani erano già a conoscenza dell’utilità dell’argilla, che plasmata con l’acqua, poteva essere facilmente lavorata. Ma il periodo d’oro delle Stufe ad Olle di Sfruz arrivò nel XVI secolo, per merito degli anabattisti faentini: per fuggire alle repressioni dello Stato Pontificio, i faentini trovarono riparo in varie località del Tirolo. La “Confraternita degli Ollari” in particolare, approdò proprio a Sfruz, portando con sé l’arte della maiolica. Questo incontro tra i fornellari di Sfruz ed i decoratori di Faenza, fu la chiave del successo di questa arte antica.
 
Ambientazione
La stufa ad olle fin dalle sue origini fu rappresentativa delle più diverse condizioni sociali: ogni famiglia a Sfruz ne possedeva una, in quanto bene comune che tutti potevano permettersi. La funzione fondamentale della stufa era quella di riscaldare la stanza durante i mesi invernali. Le stufe ad olle in origine non avevano percorsi interni di fumo, come quelle odierne, ma un unico vano interno dove l’aria calda saliva lungo la parete alla quale era appoggiata, riscaldandola fino al soffitto; il fumo veniva poi spinto nella discesa forzata fino all’uscita, per poi immettersi nella canna fumaria. Oltre a riscaldare l’ambiente, le stufe potevano scaldare i cibi, che venivano messi in appositi spazi, in parte o nel retro della stufa. In un secondo momento, la stufa ad olle non venne più vista unicamente come fornitrice di calore, ma le venne attribuita anche la funzione di decoro.
 
 
Altro esempio di stufa ad olle
Le fornaci
Le fornaci presenti a Sfruz erano presumibilmente due: quella dei Biasi, poco documentata da fonti scritte e materiali e quella della famiglia Cavosi[1]. È proprio dal XVI secolo che si attesta per la prima volta, attraverso fonti documentarie, la presenza di fornaci e mastri “fornelari” nell’abitato di Sfruz. Infatti, nell’archivio parrocchiale del paese di Vervò, a pochi chilometri da Sfruz, venne trovata una pergamena, datata 26 maggio 1532, in cui si faceva riferimento ad un certo “Maestro” Cristoforo Cavosi da Fruzo[2]. Il lavoro prodotto dai fornellari sfruzzini non è stimabile in modo esatto, ma grazie ad un documento storico ritrovato qualche anno fa “Libro dove si ordianano i forneli”, è stata confermata l’intensa laboriosità dei fornellari sfruzzini ed il primato alla famiglia Cavosi: nell’arco di 63 anni, a partire dal 1792 fino al 1854, riuscirono a vendere 1121 stufe ad olle. Oltre ad essere vendute in Val di Non, le stufe ad olle di Sfruz arrivarono a Mantova, Ferrara, Vienna e Salisburgo. Nel paese di Sfruz, le stufe riconosciute come originali sono 29.In seguito alla Seconda Rivoluzione Industriale ed al progresso tecnologico, le stufe ad olle vennero sostituite con nuove e moderne tecniche di riscaldamento. Molte stufe vennero distrutte, ma fortunatamente non tutte vennero demolite. A distanza di molto tempo, oggi è nato il desiderio di riscoprire e rivalorizzare l’arte antica delle stufe ad olle.
 
L'argilla di Sfruz
Ciò che distingue le stufe ad olle di Sfruz dalle altre è la materia prima con le quali vennero costruite, ossia l’argilla, e le maioliche degli Anabattisti faentini, con le quali vennero decorate. L’argilla di Sfruz si distingue per la sua purezza, in quanto la sua percentuale sabbiosa è molto bassa; dall’analisi granulometrica del Dott. Francesco Angelelli si hanno i risultati della sua composizione: 0,50% di sabbia, 2,20% di limo e 97,30% di argilla. Gli accumuli di argilla che si sono formati nelle cave della Val di Non, hanno rappresentato la materia prima per la lavorazione, la cottura e la creazione di ceramiche resistenti a forti calori.
 
I periodi della produzione sfruzzese
L’arte dei fornellari di Sfruz può essere classificata in quattro periodi, ai quali corrispondono quattro diversi tipi di produzione.
 
Il primo periodo è quello del Rinascimento faentino(seconda metà del 400): in quegli anni gli artisti faentini per sopperire all’impossibilità di importare le ceramiche preziose dall’Oriente in conseguenza della caduta dell’Impero Romano d’Oriente, diffusero le ceramiche a ‘policromia all’occhio di penna di pavone’. La Stufe del primo periodo avranno quindi colori luminosi: turchino, viola, verde e giallo.
 
Stufa ad olle color turchino
Il secondo periodo investe il XVII-XVIII secolo ed è caratterizzato dalla produzione di stufe con sfondo bianco-latte e decorazioni di colore verde-blu. *Il terzo periodo va da fine 700 a metà 800 e corrisponde alla produzione di stufe a sfondo verde con rilievi in bianco.
 
Stufa ad olle con sfondo verde e decorazioni bianche
L’ultimo periodo invece prosegue fino alla Rivoluzione industriale e con esso ai pannelli, in cui vennero sostituite le olle di tutti i vari colori.
I materiali utilizzati per formare i colori erano materiali naturali: ferro, magnesio, piombo, rame, sale e farina. Questi venivano messi nel forno ed inceneriti alla temperatura di 700-800 gradi centigradi.
 
 
 


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Inviato 06 agosto 2015 - 08:09

Il fuoco

 

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Il fuoco è l'effetto di una combustione in cui si abbia la manifestazione di un bagliore brillante (detto "fiamma") in concomitanza con il rilascio di una grande quantità di calore e di gas come conseguenza della combustione,[1] che consiste in una reazione di ossidazione esotermica irreversibile, durante la quale un combustibile si converte in prodotti gassosi (in genere anidride carbonica e monossido di carbonio).

 

Controllare il fuoco allo scopo di produrre luce e calore è stata una delle prime grandi conoscenze apprese dal genere umano, e molto probabilmente quella che più utile nella lotta per la sopravvivenza intrapresa dai primi ominidi. L'abilità nel controllare il fuoco è una delle principali caratteristiche che distinguono l'uomo dagli altri animali. La capacità del fuoco di generare luce e calore ha reso possibili migrazioni verso climi più freddi e ha dato agli uomini la possibilità di cuocere il cibo. I segnali prodotti con il fuoco - così come quelli ottenuti con il relativo fumo - costituirono un primitivo utilizzo del fuoco come mezzo di comunicazione. L'utilizzo del fuoco per la cottura dell'argilla nei tempi antichi ha portato all'invenzione della Ceramica: in alcuni siti archeologici della Repubblica Ceca sono stati trovati reperti in argilla cotta risalenti a circa 26.000 anni fa.[1] Il fuoco inoltre ha reso possibile lo sviluppo della metallurgia.
 
Il controllo del fuoco prevede tre tappe: conservazione del fuoco, trasporto del fuoco, produzione del fuoco. Si suppone che il passaggio da una tappa all'altra abbia richiesto alcune decine di migliaia di anni. L'esperienza diretta nella conservazione, trasporto e produzione del fuoco suggerisce che questi importanti momenti nella storia dell'umanità siano avvenuti grazie all'intuizione, e non alla casualità.
 
Non si conosce con esattezza il periodo in cui l'uomo abbia iniziato a controllare il fuoco. Una testimonianza certa si trova in una caverna a Zhoukoudian (in Cina) dove sono presenti resti di combustione da parte di Homo erectus risalenti a circa 400.000 anni fa.[1] Allo stesso periodo risalgono altre testimonianze di uso del fuoco in un sito archeologico in Torralba (Spagna).[6]
 
Fin dai tempi dell'introduzione dell'agricoltura basata su grano, nel Neolitico, gli uomini di tutto il mondo hanno usato il fuoco come uno strumento fondamentale nell'amministrazione del territorio. Ad esempio le immense praterie nel Nord America sono il risultato delle pratiche degli indiani d'America di appiccare il fuoco alle foreste allo scopo di favorire il pascolo dei bisonti.[7] In maniera analoga gli aborigeni dell'Australia fino all'Ottocento svolgevano pratiche di deforestazione allo scopo di favorire la caccia di selvaggina.
 
 
 






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