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Le cose più strane e curiose nel mondo

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187 risposte a questa discussione

#141 Guest_deleted32173_*

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Inviato 18 gennaio 2017 - 03:28

Rigenerazione
 
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In biologia, la rigenerazione consiste nel sostituire parti danneggiate del corpo con copie identiche alle stesse.
 
Caratteristiche
 
Una stella marina
 
Una talea di edera
I fenomeni rigenerativi che si verificano nell'ambito del mondo vegetale sono universalmente noti, e vengono considerati con una certa naturalezza; non genera il minimo stupore il caso di un albero mutilato d'un suo ramo che in breve tempo rigenera lo stesso, così come rientra nell'esperienza più comune la nozione delle possibilità che il ramo spezzato, dal canto suo, può offrire, rigenerando radici e trasformandosi quindi, se convenientemente interrato, in una nuova pianta: è la tecnica della talea.
 
Assai diverso è al contrario l'atteggiamento più diffuso nei confronti dei fenomeni di rigenerazione verificantesi a livello animale: il caso della lucertola che rigenera la propria coda mozzata, o del tritone che riforma le zampe amputate, o ancora della piccola Hydra d'acqua dolce, che può essere sezionata in molte parti, ognuna delle quali conserva la proprietà di riformare, dopo un breve lasso di tempo, un nuovo organismo completo in ogni sua parte.
 
La realtà è accentuatamente diversa: il mondo animale si presenta in effetti ricchissimo di esempi che mettono coerentemente in luce quali enormi possibilità abbia offerto la natura agli organismi pur di garantirne, per quanto possibile, la sopravvivenza.
 
Animale caratteristico in questo senso è la stella marina, in grado di rigenerare i propri bracci che perde, anche se in scala ridotta (i bracci rigenerati sono più piccoli degli originali).
 
Metodi rigenerativi: epimorfosi e morfallassi[modifi
Nel regno animale ci sono due modi essenziali per la rigenerazione cellulare: l'epimorfosi e la morfallassi. L'epimorfosi consiste nel far "ricrescere" una parte del corpo dell'individuo utilizzando del tessuto indifferenziato e facendolo proliferare, fino ad ottenere la giusta quantità di cellule. Una volta giunti al numero di cellule necessario, avviene una differenziazione che riporta la struttura danneggiata alle sue condizioni originarie. La morfallassi invece consiste in una riorganizzazione delle cellule che vengono prima dedifferenziate, traslocate dove servono, ed infine ridifferenziate.
 
Un singolare sistema di difesa
 
Per le lucertole, come questa lucertola campestre, la perdita della coda, che verrà poi rigenerata, è la principale difesa
In numerosi animali le capacità di rigenerazione sono strettamente collegate ai mezzi difensivi, spesso piuttosto limitati, di cui l'animale si serve per preservare la propria incolumità: un esempio viene fornito dalla lucertola; è noto infatti che questo piccolo rettile, quando si sente afferrato per la coda da un qualsiasi nemico inteso a catturarlo, si mozza da solo l'appendice caudale per mezzo di una violentissima contrazione muscolare, abbandonando quindi all'avversario l'inutile preda; la coda ricrescerà poi in breve tempo, ridando all'animale l'aspetto consueto.
 
Questo fenomeno prende il nome di autotomia e si riscontra in parecchi animali scarsamente evoluti, come le già citate stelle di mare, che si liberano con facilità dei propri bracci non appena questi vengono afferrati o feriti, o come i granchi, che analogamente abbandonano le zampe all'aggressore, o gli ofiuroidei (animali affini alle stelle di mare), cui basta toccare un braccio perché l'animale se ne privi precipitosamente.
 
 
 


#142 Guest_deleted32173_*

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Inviato 25 gennaio 2017 - 01:47

Dolci
 
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Trattare l'argomento cucina (e con esso la pasticceria) da un punto di vista storico presenta notevoli problemi determinati dalle fonti. Gli scritti che riguardano la cucina sono pochi e l'argomento fu considerato minore nelle epoche passate. Con l'avvento del Cristianesimo, inoltre, sulla buona tavola gravò la disapprovazione del peccato di gola e questo contribuì a limitare la produzione di testi in merito, spesso visti come l'oziosa perdita di tempo di ghiottoni sfaccendati. In particolare troviamo un vuoto dalla caduta di Roma sino all'anno 1000 e le poche indicazioni reperite trattano soprattutto dell'aspetto morale del cibo (digiuni e astensioni nei giorni di magro) o dell'aspetto dietistico: quali ingredienti assumere o meno per restare in salute e curarsi. Ricette, tuttavia, non sono riportate o ci sono pervenute. Solo attorno all'XI secolo, nei monasteri, si inizia a stilare ricettari veri e propri, il primo dei quali ci risulta essere quello della badessa Ildegarda di Bingen, figura di spicco dell'epoca e molto famosa per la sua cultura, la sua morale e i suoi manuali di medicina.
 
Ricostruire ricette tanto antiche nel dettaglio è, tuttavia, oggettivamente molto complesso sia per la mancanza di uniformità di termini e soprattutto per quella di unità di misura: zone diverse parlavano lingue diverse e misuravano in modi del tutto differenti, che talvolta convivevano persino nel medesimo territorio. Oltre a queste poche fonti sono giunti a noi rari testi nei quali la cucina fosse analizzata come strumento di salute e di cura, piuttosto che di piacere. Queste opere, di medici europei o arabi e talvolta di monaci contribuiscono a darci uno spaccato della dietistica nei secoli.
 
L'argomento comincia a venire trattato con una certa cura e metodo solo a partire dal 1200 e conoscerà un interesse particolare dal 1400-1500. Tuttavia si deve tenere presente che l'analfabetismo era la norma per la maggior parte della popolazione e persino tra i professionisti di alto livello cui molti cuochi e pasticceri appartenevano. Questo aspetto sarà destinato a perdurare anche in epoche più recenti, limitando ulteriormente i testi che trattano di cucina e pasticceria. In tal senso i testi in nostro possesso furono scritti da persone colte e benestanti quando non decisamente ricche, pertanto trattano in larga parte di cucina per ricchi. La tradizione culinaria delle popolazioni è sopravvissuta solo in via empirica passando, diciamo così, da cuoco o cuoca al suo successore.
 
Va, inoltre, ricordato che le cene e i banchetti solenni erano occasioni mondane, in cui andava ostentata la ricchezza e la potenza del signore: le portate erano nell'ordine delle decine e, poiché molte non venivano quasi toccate, la festa si allargava anche alla servitù che dimorava presso il Signore e che mangiava ciò che era avanzato. Per contro il cibo quotidiano era sobrio e molto moderato; scendendo di classe sociale dal sobrio passava rapidamente al misero. Da tutto questo consegue che i dolci erano effettivamente una portata di lusso, quasi sconosciuta tra la gente comune, se non nelle forme più rustiche. Oggi sono in corso diversi studi filologici sulla cucina delle diverse zone europee che cercano di rintracciare l'origine e sviluppo di alcune preparazioni, perché facenti parte della cultura, dello sviluppo e della storia delle popolazioni.
 
In epoca Greca e Latina
 
Cannoli siciliani
È improbabile che si possa parlare di dolci nel senso moderno del termine, e questo perché i dolcificanti come lo zucchero non avevano ancora fatto la loro comparsa. Tuttavia, venivano utilizzati in sua vece prodotti naturali come il miele e la frutta. Nelle epoche antiche le pietanze contenevano spesso una nota dolce, mischiata ad arte con il salato, l'affumicato e l'agro. In tal senso frutti molto comuni, come i fichi e le pere, venivano cotti, fermentati o ridotti in salsa per condire pietanze molto spesso in abbinamento con uova, formaggi, carne arrosto e persino pesce. Un tocco sontuoso veniva fornito dall'aggiunta di spezie come il pepe, i ceci, le ghiande e i comuni frutti di bosco.
 
Tuttavia possiamo rintracciare preparazioni più vicine al nostro gusto attuale. Cicerone cita, a proposito della Sicilia, di avervi mangiato un Tubus farinarius, dulcissimo, edulio ex lacte factus, e cioè un rotolo di pastella di farina, molto dolce, preparato con latte buono da mangiare, descrizione che fa pensare al diretto antenato del cannolo siciliano.
 
Lucullo presenta una ricetta di ova sfongia ex lacte, un'omelette aromatizzata di pepe e spalmata di miele, non diversa dalle omelette dolci al miele, marmellata o panna del nord Europa, in uso tutt'oggi.
 
Tra la gente comune erano reperibili focacce con i fichi e obleidos, cialde simili ai nostri biscotti cotte al momento, frequentemente spalmate di miele. Inoltre si mangiavano quotidianamente i semi dolci come corniole, nocciole, noci, datteri; i semi venivano spesso canditi con miele caramellato in modo non diverso da quanto oggi si fa con lo zucchero per preparare il croccante.
 
La frutta (uva, prugne, bacche, mele, pere, melegrane) veniva cotta e usata come salsa, come è ancora in uso nei paesi anglosassoni per accompagnare la carne, o spalmata sulle focacce di farina, come oggi spalmiamo la marmellata.
 
I dolcetti casalinghi più frequenti sembrano essere stati i datteri ripieni di noci o mandorle, che tutt'oggi si regalano nel sud Italia e nel bacino del mediterraneo specie in occasione del Natale. Questi venivano rifiniti da una caramellatura di miele cotto. Altre ricette riportano preparati inequivocabilmente vicini alla crema pasticciera e a flan o budini, dove si mischiavano uova, latte, miele, noci e spezie, prima fra tutte il pepe. Il composto, talvolta con aggiunta di farina, veniva poi cotto sino a addensarsi.
 
Il dolce, inoltre compariva frequentemente nelle bevande. Una delle più comuni, infatti, era l'idromele. Composto da acqua e miele e variamente fermentato rimase in uso per secoli, tanto da essere bevuto ancora oggi in alcune zone. Presso Etruschi e Germani era in uso il vino di frutta. Ottenuto da una leggera fermentazione di frutti vari (bacche, pere, mele) fu, di fatto, il diretto antenato del sidro dolce, tutt'oggi comunemente prodotto e bevuto in paesi quali Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra che lo esportano in molti paesi.
 
Il gelato: un dolce antichissimo
 
Coppa gelato con frutta scolpita
Un discorso a parte merita, invece, una preparazione che si ritiene usualmente recente ed è invece molto antica: il sorbetto, da cui deriverà il gelato odierno. L'uso di mescolare neve fresca o ghiaccio tritato e frutta o latte è noto da secoli, persino a popolazioni che non sempre avevano facilità a reperire le materie prime. L'Antico Testamento riporta che Isacco dicesse ad Abramo di ristorarsi dal sole violento mangiando un misto di latte di capra e neve.[senza fonte]
Numerose testimonianze riportano come fosse diffuso nei banchetti di Cina, India e Giappone.
 
Diffuso massicciamente in Asia Minore, si ritrova in antichi documenti che riportano come lo stesso Alessandro Magno ne fosse molto goloso. In Egitto e Palestina era in uso sia tra i nobili, che servivano coppe di neve o ghiaccio tritato e succhi di frutta. In Palestina, tuttavia, veniva offerto in versione più rustica anche ai braccianti che lavoravano nei campi. Di lì giunse in Grecia e in Italia, dove divenne un piatto fondamentale dei banchetti romani, e del quotidiano della gente comune: veniva infatti venduto in bancarelle per le strade grazie alle nevi che si ricavavano dall'Etna e dal Terminillo.
 
Non sappiamo con certezza se davvero questo dolce sia, come sembra, scomparso durante i secoli delle invasioni, per la già citata mancanza di fonti. Sappiamo però con certezza che rimase in uso nei territori arabi, dove si cominciò a gelare non più solo acqua (per poi aggiungervi frutta in pezzi), ma direttamente frutta in purea o in succhi.
È altamente probabile che il sorbetto sia ritornato in Italia grazie ai contatti commerciali con quei paesi. Infatti il termine sorbetto deriva dal turco şerbat, a sua volta derivato dall'arabo. Alcuni studiosi ne indicano il significato in dolce neve, altri lo fanno derivare dal verbo sorbire.
 
Può destare curiosità il fatto che popoli tanto antichi potessero ovviare alla deperibilità di ingredienti come la neve fresca o il ghiaccio. Diversi documenti, tuttavia, riportano le tecniche utilizzate per l'approvvigionamento. La neve veniva raccolta nei mesi invernali e conservata, anche molto a lungo, in sotterranei, ben avvolta nella paglia. In mancanza di neve si provvedeva a tritare finissimamente acqua che si fosse fatta ghiacciare in sotterranei profondi o si usava vapore acqueo condensato in luoghi gelidi, che erano comunque già in uso per la conservazione dei cibi.
 
Nei secoli XI-XIII
 
Krapfen
Dalle fonti in nostro possesso si delinea, a partire da questo periodo, un'abitudine che resterà invariata per diversi secoli: i banchetti, tutti di numerose portate, iniziavano con pietanze e bevande dolci, e proseguivano con il salato, al contrario di ciò che accade oggi. Si riteneva infatti che il dolce allargasse lo stomaco e l'animo dei commensali, ben disponendoli verso gli altri presenti e verso le altre portate. Tra il 1000 e il 1200 i piatti dolci sembrano essere stati pochissimi e estremamente rustici.
 
Nelle zone del nord Italia, della Francia e in parte dell'Inghilterra, ad esempio, si aprivano banchetti con Ippocrasso, vino dolce speziato accompagnato da frittelle di castagne e nespole cotte sotto le braci. I cibi, inoltre, assumevano una valenza simbolica religiosa e mitologica. Il pane e il vino, in particolare, commemoravano la passione di Cristo, ma la simbologia si estendeva anche alla frutta, che veniva cotta sotto le braci per ricordare la rinascita del sole dopo il lungo buio dell'inverno. Rimangono in certa misura ricette di derivazione romana, quali budini e creme, cialde accompagnate da frutta o miele, sformati di farina di castagna in tutto simili al nostro castagnaccio.
 
Il pane, a differenza che in epoca romana, era un alimento diffusissimo e con infinite varianti anche dolci. Veniva ingentilito con spezie, aromi vari, uva, miele, noci dolci. È l'epoca del Panpepato, del Buccellato, del Pandiramerino, preparazioni aromatiche, decisamente non soffici, destinate a durare a lungo e a poter venire trasportate o inviate senza problemi come regalo a nobili e potenti. Con una certa frequenza si trovano, inoltre, riferimenti a frutta come le pere, cotte in infusioni di rose e vino dolce. Frittelle, ravioli, cialde morbide o croccanti e crispelle fritte si riporta siano state guscio di frutta, formaggi freschi e miele, accompagnate da spezie nei giorni di festa e sulle mense dei ricchi. In particolare le frittelle si ritiene siano di derivazione araba: diversi documenti riportano come fossero in uso presso i crociati di Gerusalemme e come questi le resero comuni e famose, specie in Inghilterra, al loro ritorno in patria.
 
Si noti che, in questo periodo, il concetto di dolce soffice (come il Pan di Spagna), sembra essere stato del tutto assente. Compare soltanto in riferimento ai pani dolci: è probabilmente di quest'epoca l'antenato del famoso Panettone. Il gelato vede in questo periodo una rinascita in grande stile, grazie ai traffici commerciali con i paesi arabi. Il dolce, che loro addizionavano di spezie e di zucchero di canna, risalì l'Italia a partire dalla Sicilia. Questa era ricca di frutta, specie di agrumi, e il connubio delle due cose ebbe una enorme fortuna, diffondendosi in breve nelle corti. I crociati, all'incirca nello stesso periodo, portarono analoghe ricette scoperte a Gerusalemme nei paesi del nord Europa, primi fra tutti la Normandia e le contee inglesi. Marco Polo porterà a Venezia una variante nella preparazione per cui la refrigerazione veniva controllata mescolando acqua e salnitro, secondo l'uso orientale.
 
Nei secoli XIII-XIV
 
Vari tipi di dessert
Il Basso Medioevo rappresenta un passo fondamentale verso il concetto di pasticceria nel senso oggi comune, grazie ai fiorenti traffici che portavano alcuni ingredienti fondamentali alle corti dei nobili. Tra questi zucchero di canna, cannella, zenzero, riso, sesamo, noce moscata, chiodo di garofano.
 
In particolare il periodo che va dal 1300 al 1400 vede nascere le basi dell'arte culinaria che, evolvendosi, giungerà sino a noi. In questo periodo vengono scritti diversi ricettari che, sebbene non esaurienti e lacunosi su molti punti, evidenziano che mangiare cominciava a diventare un'arte codificata in tutta Europa e non un semplice "mettersi a tavola". Viene recuperata l'attenzione alla dietetica recuperando la teoria degli umori di Galeno, riportata in Europa dagli Arabi, attenzione che garantì una buona diffusione alle varie opere culinarie giunte sino a noi.
 
Il primo ricettario dell'epoca sembra essere stato il Libro della Cocina, di un anonimo fiorentino, che riporta una sessantina di ricette di uso comune, da cui si nota ancora una notevole commistione di dolce con salato. Le ricette dell'epoca cominciano ad essere per noi più decifrabili, grazie all'evoluzione della lingua volgare che accenna i caratteri che la porteranno a diventare lingua nazionale. I dolci assumono tipologie e caratteristiche che manterranno per i secoli a venire e che verranno non più sostituite, quanto integrate dalle novità che andranno via via a formarsi grazie anche all'apporto di nuovi ingredienti.
 
Una suddivisione semplificata ci porta a delineare alcune famiglie principali:
 
Dolci fritti come frittelle, crispelle, ravioli dolci ripieni di spezie, noci o mandorle, miele, frutta secca. Da essi derivano le attuali frittelle, i krapfen, i bignè e le bugie o chiacchiere di carnevale, i doughnuts americani, gli struffoli napoletani e altri simili.
Biscotti e cialde come le gauffres, francesi e belghe, i pancakes americani, le crepes francesi, i pfannkuchen tedeschi, canestrelli italiani, le Offelle
Pandolci lievitati di frutta o spezie, conosciuto dalla cucina austriaca e tedesca, in Italia come il panpepato, il buccellato, il pandiramerino. Da essi derivano dolci come il panettone, il pandolce genovese.
Dolci non lievitati a base di frutta secca. Molti dolci sono in uso ancora oggi e hanno mantenuto quasi invariati gli antichi nomi: lo Zelten sudtirolese, la stiaccia briaca elbana, la Rocciata di Assisi.
Dolci di frutta oleaginosa. Spesso legati con miele, caramellato o meno, comprendono tutti i dolcetti di mandorle, antenati degli attuali amaretti, i croccanti di semi dolci, come il Nucato di noci, il torrone (di origine araba), la pignoccata umbra, il panforte di Siena ed il Früchtebrot dal Tirolo.
Canditi. Diffusissimi e preparati con frutta di ogni genere: datteri, pesche, agrumi (particolarmente apprezzati), meloni, fichi, mandorle, da cui derivano i nostri canditi nuziali.
Sciroppi, vini aromatizzati e liquori. È una famiglia molto diffusa e variegata, allora più di oggi. Comprende preparazioni come il Sidro, il Rosolio, distillati di frutta varia, vini speziati come l'Ippocrasso, o l'Alchermes, liquori di bacche come il Biancospino o il Ginepro.
Dolci al cucchiaio, alcuni già diffusi in epoca romana: creme, budini, flan, polente dolci, sformati di farine varie, come il castagnaccio.
Crostate, più diffuse nel salato, che man mano vedranno moltiplicarsi le versioni dolci. Diffuse all'epoca con ripieni di formaggio fresco e miele, talvolta addizionati di spezie e canditi. Da esse derivano dolci come la cassata siciliana e tutta la famiglia del Käsekuchen (torta di "topfen o quark" (formaggio fresco)).
Si noti che non si presentano ancora preparazioni deperibili e molto raramente soffici: i dolci restano beni di lusso fatti per durare e venire trasportati senza problemi dalle carovane o inviati come doni tra i potenti. Gli unici dolci soffici sono, come nei secoli precedenti, i pani lievitati.
 
Nel Rinascimento e l'umanesimo: 1400-1500
Successivo al Libro della Cocina è il De Arte Coquinaria di un tale Mastro Martino, che testimonia il passaggio della gastronomia dell'alto Medioevo a quella Rinascimentale. Si ritiene che Martino si sia formato a Napoli, ma abbia operato a Roma presso diversi nobili. Qui il libro avrebbe visto la luce attorno al 1465. Martino fu citato da numerosi intellettuali e il suo ricettario ebbe immensa fortuna: l'autore era, cosa rara, un cuoco raffinato ed istruito. Il libro, scritto in lingua volgare, è diviso in capitoli e tra essi si comincia a delineare una maggior identità delle pietanze dolci rispetto a quelle salate.
 
Tra le ricette troviamo numerosi dolcetti fritti: il famoso krapfen, le frittelle dolci, simili ai moderni doughnuts americani, i bignè di carnevale fritti in uso in Italia e Francia, le Offelle de lo Palio, ravioli dolci ripieni di noci, nocciole e mandorle tritate legate con miele e spezie, che si friggevano in abbondante grasso. Fiori, frutta, spezie e bacche, infine, erano ingrediente privilegiato per numerosi sciroppi, come quello di biancospino o per liquori variamente fermentati, come il Rosolio.
 
L'arte di candire
 
Panettone milanese
 
La Pasticceria Gloppe allo Champs-Élysées, dipinto di Jean Béraud, 1889, Museo Carnavalet
Un posto di rilievo occupano i canditi. La pasticceria, in questo periodo, veniva spesso chiamata confetteria dall'azione di conficere, candire di zucchero fiori, frutti, semi o frutta passa. I canditi di fiori rimasero in largo uso fino a tutto l'Ottocento. Quelli di frutta, come meloni, agrumi, albicocche, pesche, sono in uso ancora oggi nelle zone del Mar Mediterraneo. Trovano un posto fondamentale in dolci come la cassata alla siciliana, il panforte di Siena o il panettone. I canditi di semi quali noci e mandorle erano diffusissimi in dolci come e il nucato, croccante di noci.
 
Queste preparazioni hanno sfidato i secoli e sono diffusissime ancora oggi nelle forme più varie: confetti di mandorle, croccante di noci, nocciole, sesamo, torroni e praline. In particolare la mandorla occupa un posto di assoluto rilievo nella pasticceria medioevale con il marzapane, che veniva preparato in dolcetti di varie fogge quali bocconotti, morselletti, calicioni. La pasta di mandorla veniva modellata in forme varie, come oggi è ancora usanza nel periodo pasquale dove si modella l'agnellino. Tuttavia nei secoli passati le forme potevano essere monumentali e rappresentare persino edifici, come il castello del signore che ospitava il banchetto. Le mandorle entrano in numerosissime paste, talvolta giunte sino a noi. Tra queste i mostaccioli, ovali o a forma di dito con miele e mandorle.
 
Ai pinoli veniva riservato un ruolo importante in dolci come la pignoccata o pinoccata che si può gustare tuttora in Umbria. La frutta secca, inoltre, entrava in molte ricette di crostate dolci, come la Rocciata di Assisi, dolce a ciambella formato da un guscio di pasta ripieno di uvetta, uva, canditi e spezie varie. Una curiosità: il termine Rocciata non indica la consistenza, ma la forma roccia, cioè tonda, secondo il dialetto locale.
 
La rivoluzione dalle Americhe: cacao, caffè, zucchero, vaniglia
 
Profiterole al cioccolato
A partire dalla metà del Cinquecento inizia quella che si configurerà come una rivoluzione del gusto. Paesi come la Spagna, la Francia, l'Inghilterra iniziano l'esplorazione e lo sfruttamento di territori noti inizialmente come Indie, che solo dopo qualche anno si compresero essere, invece, le Americhe.
Di qui gli Europei portano molti ingredienti del tutto nuovi, tra cui il cacao destinato a trovare un posto di assoluto rilievo nella pasticceria moderna.
 
Il Gelato diviene più facile da fare con la scoperta che miscelando ghiaccio e sale o ghiaccio sale e ammoniaca o ghiaccio e salnitro si potevano ottenere temperature sino a -25 °C.
Questo permette di usare per la preparazione alimenti come uova crude, panna o mascarpone, che senza un'adeguata conservazione nel freddo avrebbero sviluppato batteri letali come la salmonella o il botulino.
 
Grazie a questa scoperta il gelato si modifica, diventando molto simile a quello attuale. Passa infatti da neve o ghiaccio addizionato di ingredienti dolci a diversi ingredienti dolci in forma liquida che vengono congelati per contatto del contenitore con ghiaccio. Gelando vengono girati continuativamente per incamerare aria e divenire soffici, esattamente come avviene oggi.
 
Questa epoca, ricchissima di scambi commerciali e diplomatici, vede inoltre la nascita di una preparazione nuova, destinata ad avere immensa fortuna: la Pâte Génoise. Con essa si diffonde il dolce soffice, che vedrà un connubio molto fortunato con ingredienti come il gelato, le creme, il cacao, le vaniglia. I dolci che derivano da questo incontro vengono spesso sviluppate in forme elaborate o addirittura monumentali nei banchetti di gala, ma sono, sostanzialmente, in tutto simili a quelle attuali.
 
 


#143 Guest_deleted32173_*

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Inviato 01 febbraio 2017 - 08:14

Il neurone
 
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La parte centrale del neurone è chiamata soma, ed è costituita dal pirenoforo, in cui risiede il nucleo, e dagli altri organelli deputati alle principali funzioni cellulari (apparato di Golgi, neurofilamenti, neurotubuli, granuli di pigmento, sostanza tigroide, mitocondri, nucleo, reticolo endoplasmatico liscio e rugoso). Le cellule nervose presentano poi all'interno del soma una zona che, fissata con alcol e colorata con blu di metilene, si colora a macchia di leopardo. Questa zona assume il nome di zolla di Nissl o sostanza tigroide e rende la cellula nervosa ancora più riconoscibile a una sezione istologica.
 
Dal corpo cellulare hanno origine prolungamenti citoplasmatici, detti neuriti, che sono i dendriti e l'assone. I dendriti, che hanno diramazioni simili a un albero, ricevono segnali da neuroni afferenti e lo propagano in direzione centripeta (verso il pirenoforo). La complessità dell'albero dendritico rappresenta uno dei principali determinanti della morfologia neuronale e del numero di segnali ricevuti dal neurone. A differenza dell'assone i dendriti non sono dei buoni conduttori dei segnali nervosi i quali tendono a diminuire di intensità. Inoltre i dendriti si assottigliano fino al punto terminale e contengono poliribosomi.
 
L'assone conduce invece il segnale in direzione centrifuga verso altre cellule. Ha un diametro uniforme ed è un ottimo conduttore grazie agli strati di mielina (la sua velocità di trasmissione è di 120 m/s ovvero 432km/h). Nell'assone di alcuni tipi neuronali può avvenire la sintesi proteica di neurotrasmettitori, proteine cargo e mitocondriali. La parte finale dell'assone è un'espansione detta bottone sinaptico. Attraverso questi bottoni un assone può prendere contatto con i dendriti o il corpo cellulare di altri neuroni affinché l'impulso nervoso si propaghi, con una reazione a catena, lungo un circuito neuronale. Esistono vari tipi di neurotrasmettitori trasportati dal sistema nervoso i cui nomi sono: -acetilcolina (eccitante) -noradrenalina (eccitante) -dopamina (rilassante o calmante) -adrenalina (eccitante)
 
Gli assoni delle cellule del sistema nervoso periferico sono ricoperti da due membrane protettive, che isolano l'assone impedendo la dispersione degli impulsi elettrici. La membrana più esterna prende il nome di neurolemma o guaina di Schwann, quella più interna di guaina mielinica. Lungo il neurolemma sono presenti delle strozzature, in corrispondenza delle quali la guaina mielinica si interrompe, dette nodi di Ranvier,(in questo punto in cui non si trova la mielina si ha una piccola dispersione di carica).
 
I neuroni del sistema nervoso simpatico (che trasmettono cioè impulsi elettrici a muscoli involontari) non presentano in genere la guaina mielinica, mentre altri neuroni mancano invece del neurolemma (ad es. il nervo ottico).
 
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Connettoma e Colonna corticale.
Classificazioni di neuroni
 
Diagramma completo di una cellula neuronale.
È possibile classificare i neuroni da un punto di vista morfologico, funzionale e citochimico.
 
Classificazione morfologica
Sotto un profilo prettamente morfologico è possibile classificare i neuroni in base a:
 
1) Numero e modalità di ramificazione dei prolungamenti:
 
Neuroni unipolari: se presentano un tipo di prolungamento. Nei suddetti neuroni il prolungamento ha valore di assone e il pirenoforo ha valore di sito recettore. Esempi di neuroni unipolari sono i neuroni embrionali e i neuroni sensitivi primari (olfattivi e visivi) nell'adulto.
Neuroni bipolari: se presentano un assone e un solo dendrite. I due prolungamenti si dipartono dagli antipodi del soma e dunque si parla più correttamente di neuroni oppositopolari.
Neuroni multipolari: se presentano un assone e molteplici dendriti, questi ultimi di solito presentano aspetto arborescente. A questa classe appartengono anche i neuroni di tipo I e II del Golgi.
Neuroni pseudounipolari: se sembrano presentare un solo tipo di prolungamento. Essi derivano da un neurone oppositopolare in cui si è verificato un accrescimento eccentrico del pirenoforo con conseguente divisione del prolungamento assonico che porta un singolo assone a separarsi in due ramificazioni. Seppur entrambi dotati di membrana mielinica, uno di essi assume una funzione dendritica (pur rimanendo tecnicamente un assone). Dalla ramificazione del singolo assone ne deriva la caratteristica forma a "T". Esempi di neuroni pseudounipolari sono i neuroni gangliari.
2) Aspetto formale (sono descritti solo i tre tipi più rappresentativi):
 
cellule piramidali: a forma di piramide, i dendriti alla base si distribuiscono in senso orizzontale, mentre il dendrite apicale si sviluppa in altezza. L'assone in genere si dirige verso le zone più interne della corteccia, spesso entrando nella sostanza bianca sottocorticale.
cellule stellate: a forma di stella, definite anche granuli, i dendriti si ramificano nelle immediate vicinanze del soma, e l'assone può contattare cellule adiacenti oppure finire in uno strato inferiore o superiore della corteccia cerebrale.
cellule fusiformi: a forma di fuso con alle estremità due ciuffi dendritici. L'assone in genere abbandona la corteccia, ma in alcuni casi può ascendere a strati più superficiali.
3) Comportamento del prolungamento assonico:
 
Neuroni di tipo I del Golgi (neuroni di proiezione): se il neurite è molto sviluppato in lunghezza e mantiene la propria individualità formale nel groviglio di fibre nervose.
Neuroni di tipo II del Golgi (neuroni a circuito locale): se il neurite è poco sviluppato in lunghezza e perde la propria individualità nel groviglio di fibre nervose.
Classificazione funzionale
In base alla funzione e alla direzione di propagazione dell'impulso nervoso è possibile suddividere i neuroni in tre tipi:
 
Neuroni sensitivi o afferenti: partecipano all'acquisizione di stimoli, trasportando le informazioni dagli organi sensoriali al sistema nervoso centrale. Le fibre composte da assoni di questo tipo di neuroni sono chiamate afferenti. Essi sono rappresentati dalle cellule gangliari (derivate dalle creste neurali) e dalle cellule sensitive primarie olfattive e visive (derivate rispettivamente dai placoidi olfattivo e ottico).
Interneuroni o neuroni intercalari (neurone con ingresso un neurone e uscita un neurone): all'interno del sistema centrale, integrano i dati forniti dai neuroni sensoriali e li trasmettono ai neuroni motori.
Neuroni motori o efferenti (detti anche motoneuroni): emanano impulsi di tipo motorio agli organi della periferia corporea. In ambito neuroanatomico si tende a distinguerli in somatomotori (o motoneuroni propriamente detti), i cui assoni formano fibre chiamate efferenti, e visceroeffettori. I primi innervano la muscolatura striata volontaria dell'organismo, tra essi esiste una ulteriore sottoclassificazione in motoneuroni α (alfa), ossia responsabili dell'effettiva contrazione delle fibre muscolari striate, e motoneuroni γ (gamma), che innervano organi sensoriali propriocettivi detti fusi neuromuscolari intercalati nella compagine muscolare. I secondi (visceroeffettori) danno origine a fibre dette visceroeffettrici, ma meglio definibili come pregangliari, poiché fanno sempre capo a un secondo neurone localizzato in un ganglio simpatico o parasimpatico, da cui origina la fibra postgangliare. Tali neuroni agiscono nell'ambito delle risposte involontarie o viscerali a determinati stimoli (es. costrizione della muscolatura liscia, secrezione ghiandolare).
Classificazione citochimica
È possibile catalogare i neuroni in base al neurotrasmettitore primario in 5 classi:
 
Neuroni aminergici: divisi a loro volta in
monoaminergici: se sfruttano come neurorotrasmettitori le monoamine biogene (serotonina e catecolamine).
colinergici: se sfruttano come neurotrasmettitore l'acetilcolina.
aminoacidergici: se sfruttano come neurotrasmettitori gli aminoacidi o frammenti di essi. Tra questi ricordiamo i neuroni GABAergici con funzione inibitoria e i neuroni glutammatergici con funzione eccitatoria rispetto ai precedenti.
Neuroni purinergici: una categoria ristretta di neuroni che usa come neurotrasmettitori le basi puriniche. Hanno funzione di inibizione.
Neuroni peptidergici: divisi a loro volta in
Neuroni peptidergici del sistema magnocellulare ipotalamo-ipofisario: impegnati nell'elaborazione di ADH e ossitocina;
Neuroni peptidergici del sistema parvicellulare ipofisiotropico: impegnati nell'elaborazione di fattori di rilascio e di inibizione degli ormoni adenoipofisari.
Neuroni peptidergici extraipotalamici centrali e periferici: isolati in territori endocrini del sistema neuroendocrino diffuso.
Neuroni nitrossidergici: se sfruttano come neutrasmettitore il nitrossido gassoso. I neuroni in grado di secernere nitrossido possiedono l'enzima nitrossido-sintetasi.
Neuroni anandaminergici: se sfruttano come neurotrasmettitori gli endocannabinoidi.
Trasmissione dell'impulso elettrico
 
Esempio di sinapsi so-somatica. All'arrivo del potenziale d'azione, la depolarizzazione della membrana del terminale sinaptico determina la fusione delle vescicole sinaptiche con la membrana presinaptica. Il mediatore viene rilasciato nello spazio sinaptico, interagisce con recettori presenti sulla membrana postsinaptica del secondo neurone e determina effetti p.es. apertura di canali ionici, risposte metaboliche, etc. Il mediatore viene rimosso dallo spazio sinaptico e la sinapsi è pronta a un nuovo ciclo.
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La struttura intervallata della guaina mielinica permette all'impulso elettrico di "saltare" da un nodo di Ranvier all'altro ed essere trasmesso così più velocemente da neurone a neurone. Si parlerà, in questo caso, di conduzione saltatoria, mentre per l'impulso che viaggia su tutta la fibra si parlerà di conduzione puntiforme; quest'ultima è tipica dei nervi periferici (presenti per es. negli arti). Gli impulsi elettrici (spike) sono generati grazie a un meccanismo di polarizzazione e depolarizzazione della membrana del neurone, che agisce con un movimento ondulatorio. Si parla infatti di onde polarizzatrici e depolarizzatrici che si susseguono all'interno delle fibre.
Il sistema garantisce la propagazione degli impulsi elettrici (spike) lungo l'assone, con una velocità di circa 100 m/s. Si definisce frequenza di scarica o frequenza d'innervazione del neurone, lo spike al secondo, (Fi=spike/s).
 
Curiosità
Il termine "pirenoforo" è in realtà utilizzato erroneamente. È un termine risalente alle prime osservazioni del tessuto nervoso e letteralmente significa "portatore di seme". Il seme in questione non è altro che il nucleo della cellula nervosa, ma poiché tutte le cellule a eccezione degli eritrociti di mammifero possiedono almeno un nucleo, allora tutte quante dovrebbero essere chiamate pirenofore.
 
 
 


#144 Guest_deleted32173_*

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Inviato 08 febbraio 2017 - 05:42

Circo
 
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Tra i maggiori storici del Circo vanno citati almeno il bolognese Alessandro Cervellati e il friulano di adozione Giancarlo Pretini. Nell'antica Roma il circo era un luogo adibito a corse di cavalli, spettacoli equestri, ricostruzione di battaglie, esibizioni di animali ammaestrati, spettacoli di giocolieri e acrobati. Il circo romano era costituito da due rettilinei paralleli separati nel mezzo da una balaustra e raccordati da due curve a 180 gradi. Gli spettatori di alto rango sedevano nelle postazioni più basse.
 
Nei secoli successivi alla caduta dell'Impero romano, diverse compagnie, generalmente di piccole dimensioni anche in virtù delle minori dimensioni dei centri abitati e delle difficoltà nei trasporti e negli spostamenti, viaggiavano per l'Europa proponendo spettacoli ed esibizioni varie, spesso consistenti in giochi di abilità, semplici rappresentazioni comiche o tragiche o esibizioni di animali ammaestrati. Gli artisti più ingegnosi erano in grado di costruire nuovi mezzi di trasporto, o modificare quelli esistenti, in modo che potessero convertirsi, al momento dello spettacolo, in veri e propri palcoscenici viaggianti; dell'esistenza di questi mezzi pittoreschi sono presenti numerose narrazioni nella letteratura dei secoli passati
Nel XV secolo giunsero in Europa, provenienti probabilmente dal territorio dell'attuale Pakistan, i Sinti, etnia di origine gitana che aveva fatto dello spettacolo viaggiante e da strada la sua principale attività. Spesso le compagnie di Sinti usavano portarsi dietro, per attirare il pubblico, un orso o una scimmia ammaestrati, e per secoli l'immagine dello zingaro girovago era tradizionalmente associata a questi animali, oltre che ai cavalli.
 
Nel Settecento, e più precisamente nel 1768, l'ufficiale di cavalleria britannico Philip Astley ideò per la prima volta un'esibizione circense in senso moderno, ovvero uno spettacolo in cui, in una pista circolare sita in uno spazio chiuso, venivano esibiti in successione numeri con cavalli ammaestrati, giochi di abilità vari e intermezzi comici di clowneria[3]. Astley è considerato da alcuni storici l'inventore del circo nel senso moderno, sebbene non provenisse da una famiglia dedita per tradizione allo spettacolo viaggiante e la sua stessa esibizione non fosse itinerante, bensì rappresentata stabilmente in un edificio appositamente realizzato, l'Astley Amphitheatre, distrutto da un incendio circa trent'anni più tardi.
 
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Nuovo Circo[modifica | modifica wikitesto]
Negli anni successivi al secondo dopoguerra, al panorama circense basato sulla trasmissione familiare si sono aggiunte scuole e compagnie di provenienza non tradizionale. Il primo esempio storico è quello dell'organizzazione sovietica, che nell'ex Urss struttura la formazione circense e un approccio estetico di tipo teatrale alla costruzione degli spettacoli. In occidente tale modello è ereditato dal Cirque du Soleil. Dagli anni '90, il nuovo circo, circo contemporaneo o nouveau cirque, si afferma soprattutto in Francia con una nuova caratteristica: a differenza del sistema sovietico o del Cirque du Soleil, gli spettacoli abbandonano la sequenza di singoli "numeri" compiuti a favore di creazioni in cui le discipline e le tecniche si fondono completamente.
 
Icone del circo italiano
Il grande vecchio del circo italiano è il commendator Egidio Palmiri, anche lui artista da giovane e proveniente da una famosa famiglia circense; Palmiri è stato Presidente dell'Ente Nazionale Circhi per ben 53 anni, finché, il 24 febbraio 2011 ha ceduto la carica operativa ad Antonio Buccioni (suo braccio destro per i precedenti 19 anni) per assumere il titolo di presidente onorario: si tratta della figura di riferimento per tutte le famiglie d'Italia e per tutti gli artisti. In quanto presidente dell'Enc è stato presidente onorario della giuria del Festival internazionale del circo città di Latina e membro stabile della giuria di molte altre rassegne sul territorio nazionale ed europeo. Un'icona del circo italiano è Flavio Togni, vincitore di un clown d'oro a Montecarlo, momentaneamente (febbraio 2012) lavora nell'American Circus della famiglia Togni con il suo numero di elefanti, felini e cavalli. Altra icona del grande circo italiano è Moira Orfei, morta la mattina del 15 novembre 2015 a Brescia, che nel 1960 aprì l'omonimo circo. Moira Orfei appartiene a una delle più grandi dinastie circensi italiane, ed iniziò proprio nel 1960 la sua attività come cavallerizza, ed in seguito come trapezista, acrobata, addestratrice di elefanti e di colombe. Nel 1966 le nasce uno dei figli, di nome Stefano Nones Orfei, figlio anche di uno dei più grandi domatori in Italia: Walter Nones. L'altro grande circense e domatore italiano, star del circo internazionale e famoso in tutto il mondo fu Darix Togni, anche fondatore nel 1974, insieme al principe Ranieri III di Monaco, del primo Festival internazionale del Circo di Monte Carlo. Il Circo di Darix Togni fu pioneristico specie per la vocazione al viaggio: già nel 1949 il circo fu portato in Egitto, ospite del re Faruq I d'Egitto. I figli di Darix, Livio Togni, Corrado Togni e Davio Togni, sono invece i creatori del circo italiano che ha svolto più tournée all'estero, il Florilegio di Darix Togni, che oltre ad essersi esibito in tutta Europa ha toccato nell'arco degli ultimi 30 anni oltre 60 paesi differenti nel mondo, fra cui Iran, Libano, Siria, Qatar, Ghana, Costa D'Avorio. Il Florilegio è stato ed è tuttora il circo più imitato e copiato d'Europa, sia nelle strutture che nello spettacolo.
 
 
 


#145 Guest_deleted32173_*

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Inviato 15 febbraio 2017 - 05:42

Le caramelle
 
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Le prime caramelle giunsero dal Vicino Oriente intorno all’XI con il ritorno in patria dei Crociati. Erano semplici barrette di zucchero di canna (il nome deriva dalla dizione spagnola del latino canna mellis). Ma solo dopo la scoperta e la colonizzazione delle Americhe, lo zucchero diventò merce diffusa, anche se riservata alle classi più agiate. Veniva venduto in “pani” di forma conica, dai quali si grattava via la quantità necessaria. Era raro e costoso. Ho un ricordo d’infanzia: mia nonna teneva lo zucchero in zollette nascosto nella madia, come un gioiello, finché un giorno decise di regalarcene qualcuna, ma all’apertura si scoprì che erano arrivate prima le formiche. Solo per dire per quanti secoli la miseria aveva fatto considerare lo zucchero una spezia preziosa. Con l’estrazione dalla barbabietola di uno zucchero bianco, facilmente solubile, l'arte dolciaria si trasformò e divenne protagonista di una nuova arte: quella della confetteria. Il Confetturiere Piemontese, del 1790, descrive il procedimento per fare le caramelle,
"cuocendo il zuccaro alla cottura detta caramel". Croccante e non appiccicoso.
 
Nell’Ottocento le caramelle erano fatte al torchio. Una volta raggiunta la giusta temperatura il composto di acqua e zucchero si versava in una cornice posta su un piano di marmo leggermente unto (a qualcuno ricorda lo zucchero d’orzo fatto in casa in certi pomeriggi invernali, come golosa merenda?) Quindi si disponeva il ripieno su metà del caramello parzialmente indurito prima di sovrapporre l'altra metà. La lastra ottenuta era passata sotto una pressa e le caramelle venivano poi ritagliate manualmente una a una e incartate. La carta aveva anche una funzione pratica soprattutto da quando, con la nascita dell’industria dolciaria, la vendita non avveniva più in laboratorio ma dai dettaglianti.  Nelle antiche lavorazioni, come si legge sul sito Taccuini storici, la massa zuccherina aromatizzata era posta ancora bollente in un piccolo cucchiaio di rame con becco molto lungo, e versata goccia a goccia sopra un tavolo di marmo; se ne formavano pastiglie rotonde grandi quanto una moneta da 25 centesimi; il composto raffreddandosi diventava trasparente e durissimo.  Così dalle prime pasticche di zucchero d’orzo per “mollificare la tosse” si passò alle caramella lavorate con paste di frutta ed estratti naturali: ananas, arancia, ciliegie, limone, fragole e menta.
 
 


#146 Guest_deleted32173_*

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Inviato 22 febbraio 2017 - 06:00

La pasta
 
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Le origini della pasta sono molto antiche. Presente nelle sue forme più semplici e primordiali in diverse parti del continente eurasiatico, fin da tempi remoti, si è sviluppata in maniera parallela, indipendente e diversificata, dalle valli cinesi dell'estremo oriente alle aree mediterranee della penisola italica. In quest'ultima zona in particolare ebbe un rapido e importante sviluppo gastronomico e tradizionale che durerà intatto fino all'attualità.
 
La pasta infatti era già ampiamente conosciuta ai tempi della Magna Grecia (Sud Italia) e dell'Etruria (Italia centro-occidentale), dove veniva però chiamata in altri modi. La pasta era conosciuta con il termine greco làganon, quello etrusco, magnogreco e italico ''makària'', il quale, una volta subentrato nel vocabolario latino, giunge fino ai giorni nostri sotto forma del verbo di alcune zone dell'Italia meridionale ''maccari'', che a sua volta è all'origine dei termini dialettali ''maccaruni-maccaroni'' e del corrispettivo ''maccheroni'', nonché del verbo italiano ''ammaccare'' (col significato generico di schiacciare, o nel caso della pasta con il senso di ''lavorare una materia massosa, pressandola, impastandola e modellandola''), mentre il termine latino laganum si usava per indicare un impasto di acqua e farina, tirato e tagliato a strisce. Conosciuto e documentato è infatti che già Cicerone, l'antico filosofo romano, tesseva lodi parlando di làgana, termine latino dal quale deriverebbe l'attuale nostrana lasagna.[1][2]
 
Il suddetto termine è infatti ancora usato in alcune regioni del sud Italia, in particolare nel Cosentino, in Calabria, e in altre zone della Puglia e della Basilicata, per indicare la pasta lunga a strisce (simile alle tagliatelle, ma più corta), conosciuta ancora attualmente col nome di làgana o laina, solitamente condita con leguminacee a secco, e amalgamata con olio d'oliva e spezie, così come si faceva in antichità. Il vocabolo latino pasta, che era più generico, deriva dal termine păsta(m) e dal sinonimo greco πάστα (pàsta-ein), con significato di ''farina con salsa o condimento'' derivante a suo volta dal verbo pássein cioè ''impastare''. Questo termine comincia a essere impiegato in Italia a partire dall'anno 1051 circa, anche se a cercare le origini della pasta, chiamata con altri nomi, si può tornare indietro fin quasi all'età neolitica (circa 8000 a.C.) quando l'uomo cominciò la coltivazione dei cereali che ben presto imparò a macinare, impastare con acqua, cuocere e durante il medioevo italiano seccare al sole per poterli conservare a lungo. La pasta in antichità, era infatti un cibo diffuso in varie zone del bacino del Mediterraneo e dell'estremo oriente, nelle sue molteplici varianti locali, molte delle quali scomparse o non evolutesi, di cui si trovano tracce storiche in diverse parti del continente euroasiatico.
 
Questo alimento acquisisce una posizione particolarmente importante e un ampio sviluppo in Italia e in Cina dove si sviluppano due prestigiosi e consolidati filoni di tradizione gastronomica, fin da tempi remoti, che pur non incontrandosi e non contaminandosi culinariamente, si completano a vicenda nella loro diversità, producendo cibi simili contemporaneamente e parallelamente, a latitudini diverse e in continenti lontani, culturalmente distinti e con materie e tecniche differenti, i quali si possono ancora incontrare sulle tavole degli uomini d'oggi, in quasi tutto il mondo, grazie alle esportazioni globali, che partendo da questi due paesi hanno fatto il giro del globo, ma di cui rimane difficile, se non impossibile, stabilire e ricercare rapporti tra essi prima dell'epoca odierna, proprio per la complessità dei percorsi intermedi. Effettivamente, la pasta così come noi la conosciamo oggi, è autoctona e tradizionale di entrambi i paesi, sia dell'Italia (da cui si è mossa in altri paesi occidentali), sia della Cina (da cui si è diffusa nel resto dell'oriente), indipendentemente. Una delle testimonianze più antiche, databile intorno ai 3800 anni fa, è data da un piatto di 麵 (la miàn-fen), dei noodles cinesi di miglio, rinvenuti nel nord-ovest della Cina, presso la città di Lajia sotto tre metri di sedimenti.[3]
 
Il ritrovamento cinese viene, storicamente, assolutamente considerato indipendente da quello occidentale, perché all'epoca i cinesi non conoscevano il frumento e il grano, caratteristico delle produzioni italiane e mediterranee, che tra l'altro utilizzano metodi di lavorazione completamente differenti; il che sottolinea maggiormente il parallelismo d'origine tra i due inventi culinari. Ugualmente possiamo trovare tracce di paste alimentari, altrettanto antiche, già tra Etruschi, Greci, Romani e altri popoli italici. Chiara è la testimonianza per gli Etruschi rinvenuta a Cerveteri, nella tomba della Grotta Bella, risalente a un periodo tra il X e il IX secolo a.C., dove su alcuni rilievi sono chiaramente raffigurati degli strumenti ancora oggi in uso in Italia per la produzione casalinga della pasta, come spianatoia, matterello e rotella per tagliare. Per il mondo greco e quello latino numerose sono le citazioni fra gli autori classici, fra cui Aristofane e Orazio,[4] che usano i termini làganon (greco) e laganum (latino) per indicare un impasto di acqua e farina, tirato e tagliato a strisce (quasi identici alle tagliatelle, ai tagliolini e alle fettuccine, ma più corti e tozzi). Queste lagane, ancora oggi in uso nel sud d'Italia (da cui viene l'attuale parola laina), acquisiscono tanta dignità da entrare nel quarto libro del ''De re coquinaria''[5], del conosciutissimo ghiottone e filosofo gastronomico latino Apicio, autore del primo libro di cucina tuttora conosciuto. Egli ne descrive minuziosamente i condimenti, tralasciando le istruzioni per la loro preparazione, facendo intendere che la pasta fosse ampiamente conosciuta e usata in tutta l'Italia antica, tanto che era superfluo descriverla.
 
Successivamente, presso gli Arabi medievali, il poeta e musicista Ziryab, che era anche un appassionato gastronomo del IX secolo d.C., descriveva impasti di acqua e farina molto diffusi nella Sicilia musulmana, assimilabili alle paste alimentari, e antenati dei vermicelli e degli attuali spaghetti.[6] Ne ''Il diletto per chi desidera girare il mondo'' o ''Libro di Ruggero II'' pubblicato nel 1154, Al-Idrisi, geografo di Ruggero II di Sicilia, descrive Trabia, un paese a 30 km da Palermo, come una zona con molti mulini, dove si fabbricava una pasta a forma di fili, chiamata ''itrya'' (dall'arabo itryah) che significava appunto "focaccia fine tagliata a strisce", queste ultime vengono prodotte ancora oggi dalle massaie di Puglia e di Sicilia, e vengono chiamate con il termine dialettale ''trija'', e durante il Medioevo, venivano spedite con navi in abbondanti quantità per tutta l'area del Mediterraneo, sia musulmano sia cristiano, così come ben descritto da Al-Idrisi, dando origine a un commercio molto attivo, che dalla Sicilia si diffondeva soprattutto verso nord lungo la penisola italica e verso sud fino all'entroterra sahariano, dove era molto richiesto dai mercanti berberi.
 
Nel 1279 il notaio marchigiano Ugolino Scarpa, facendo un elenco di ciò che un milite genovese, tale Ponzio Bastone, lasciava alla sua morte nella sua povera eredità, descrive in italiano medievale: ''una bariscella plena de maccaroni'', facendo riferimendo appunto a una ''cesta di vermicelli'' (o spaghetti); e ancor prima, nel 1244, un medico bergamasco promette a un lanaiolo di Genova che l'avrebbe guarito da un'infermità alla bocca se egli non avesse mangiato né carne, né frutta, né cavoli, né pasta, scrivendo testualmente in un latino volgare italoromanzo: "... et non debae comedare aliquo frutamine, neque de carne bovina, nec de sicca, neque de pasta lissa, nec de caulis..'', vietandogli appunto di mangiare, tra altri alimenti, anche la pasta; altro esempio è anche quello del 1221 presente in una ''cronica'' di Fra' Salirnbene da Parma, che parlando di un frate grosso e corpulento, tale Giovanni da Ravenna, annota: “Non vidi mai nessuno che come esso si abbuffasse tanto volentieri di lasagne con formaggio”; e ancora si potrebbero menzionare gli scritti del poeta, umanista e filosofo Jacopone Da Todi, che nel 1230, in una sua lettera al Papa, parla e descrive ampiamente i ''maccaroni'', trattandoli come se fossero un oggetto di piacere sublime e ultraterreno. Queste testimonianze e molte altre, tutte scritte e documentate in Italia, posteriormente ai testi dell'antichità classica del mondo greco-romano ed etrusco, dimostrano come la pasta fosse ben diffusa e conosciuta, prodotta e consumata fin dall'alto medioevo, in tutta la penisola, da nord a sud, e rappresentano le prime testimonianze rintracciabili e tangibili sulla pasta alimentare che poi entreranno nella storia.
 
 
Preparazione artigianale di spaghetti cinesi
Nella tradizione orientale, invece, una delle più antiche e complete fonti sui diversi tipi di masse per ''miàn'', che segna anche l'inizio della diversificazione delle tecniche di preparazione in funzione della specie di cereale impiegata, è rappresentato dal 'Qimin yaoshu', “Le tecniche essenziali per il popolo Qi”, primo trattato di agricoltura cinese del sec.VIII d.C., in cui l'autore Jia Sixie, in una parte dedicata all'economia domestica, descrive prestigiosi piatti e prodotti gastronomici dell'epoca tra cui molti a base esclusivamente di cereali lavorati. Fra questi distingue paste di riso e paste di cereali diversi dal grano, e in particolare di miglio, che, avendo solo amido, necessitano di processi di impastatura ben diversi dalle prime per poter divenire paste alimentari. Vi si descrive una tecnica di allungamento in bagno d'acqua per le paste migliacee (usanza usata ancora oggi in oriente, differente dai metodi di lavorazione italiani in occidente), processo che ha il fine di lavare l'amido e valorizzare le caratteristiche del glutine che le rende «incomparabilmente scivolose» e di cui si dimostra di aver intuito la stessa importanza riscontrata da Jacopo Bartolomeo Beccari che ne scoprì i principi nutritivi all'inizio del XVIII sec. Per le paste di amido, come quelle di riso, sconosciute e mai usate in occidente, vi si descrive un processo di fissaggio della forma attraverso la parziale gelatinizzazione in acqua bollente di un impasto molle, diviso in filamenti attraverso uno staccio, tramite il quale vengono versati direttamente nel liquido o all'occorrenza scolati e cotti a vapore per differirne l'uso (tipico mezzo di cottura ancora oggi usato in Cina, punto di partenza dal quale poi si diffuse in altre zone dell'estremo oriente, come il Giappone).[7]
 
 
Tagliatelle all'uovo
Nell'Europa centrale e in particolar modo nella Germania orientale, possiamo trovare invece una discreta diffusione e riadattazione della pasta all'uovo proveniente dal nord Italia. La pratica di idratare la farina con le sole uova si attesta già radicata in Renania dalla metà del XVII secolo; mentre in Italia, da cui poi giungerà anche in Francia, Spagna e in altri luoghi dell'Europa del sud, non risultano tracce di quest'uso, con il quale l'abate germanico Bernardin Buchinger scrive in lingua tedesca il libro di cucina che diventerà la base della tradizione gastronomica alsaziana[8], in cui si dice che gli alsaziani avevano integrato nella loro alimentazione una versione di massa arricchita da "molte uova" (che per quella società voleva dire 6 o 8 per kg di farina) di un tipo di pasta chiamata ''nudeln'' dai tedeschi (da cui in seguito deriverà il termine inglese 'noodle'), la cui caratteristica era di essere soda e omogenea, stesa col matterello e tagliata in nastri[9]; usanza che però non si diffuse mai al di fuori di quest'area geografica germanica.
 
Evoluzione
 
Fabbrica di maccheroni, Palermo.
La più importante novità del Medioevo per la costituzione della moderna categoria di pasta, fu l'introduzione e l'invenzione italiana, di un nuovo metodo di cottura e di nuovi formati. Il sistema della bollitura, usato nell'antichità solo per pappe o polente di diversi cereali,[10] sostituì il passaggio al forno dove invece le antiche lagane erano poste direttamente con il condimento come liquido di cottura. Nacquero in Italia le prime paste forate - soprattutto nel centro-sud, come rigatoni, penne e bucatini - e quelle ripiene, maggiormente nel centro-nord, come tortellini, ravioli e agnolotti, seguiti sempre al nord dall'avvento della pasta fresca all'uovo; mentre l'importante invenzione della pasta secca a lunga conservazione, è attribuita storicamente agli abitanti della Sicilia musulmana, che bisognosi di provviste da vendere ai mercanti saraceni e berberi che effettuavano lunghi spostamenti nel deserto, svilupparono metodi efficaci di essiccazione all'aria aperta, spesso usati in precedenza per alimenti simili alla pasta anche dalle popolazioni islamiche del medio oriente, ma perfezionati dai siciliani ai tempi dell'Emirato di Sicilia e perpetuati in parte ancora ai giorni nostri, fu questa la novità che più influì nelle abitudini alimentari e nei commerci dall'Italia verso il resto del mondo.
 
Fu nel Medioevo che sorsero le prime botteghe italiane per la preparazione professionale della pasta, che dal sud Italia, impregnato di cultura araba, si muovevano verso il resto della penisola, il Nordafrica, il Medio Oriente, il levante spagnolo, e il resto d'Europa, già a metà del XIII secolo si installarono grandi pastifici soprattutto a Napoli e Genova, città che avranno poi grande partecipazione nell'evoluzione e nel successo delle paste alimentari. In un secondo tempo aprirono anche in Puglia e in Toscana e nel XIV secolo vennero costituite le prime Corporazioni Di Pastai Italiani, controllate e regolamentate dal Papa, le quali bolle vaticane normatizzavano le maniere bottegaie, e stabilivano tra il 1300 e il 1400 che, specialmente nella città di Roma, non potevano esserci meno di 50 metri tra una bottega di pasta e l'altra, per evitare liti tra commercianti; documenti i quali mettevano chiaramente in mostra come l'arte pastificia fosse enormemente diffusa in tutta l'Italia di quell'epoca. La tecnica dell'essiccazione permise alla pasta di affrontare lunghi percorsi via mare o all'interno del continente, per i quali si specializzarono soprattutto i commercianti genovesi, chiamati solitamente e localmente fidellari dato che fidelli era il nome dato agli spaghetti in questa zona del nord-ovest italiano, mentre nel resto d'Italia continuavano a essere chiamati vermicelli, gli stessi tempo dopo prenderanno il nome di spaghetti.[11] Così che la Liguria divenne luogo di produzione di enormi quantità di paste secche, mentre l'Emilia-Romagna, la Lombardia, la Basilicata e il Veneto rimarranno legati all'uso della pasta fresca che tuttora persiste.
 
Oltre ai croseti (pasta corta) e all'ancia alexandrina lombarda (pasta lunga), nel Trecento il Liber de coquina spiega molto dettagliatamente il modo di fare lasagne[12] nell'area emiliana, e si consiglia di mangiarle con "uno punctorio ligneo", un attrezzo di legno appuntito. In effetti, mentre nel resto d'Europa per mangiare si useranno le mani fino al XVII-XVIII secolo, in Italia si ebbe una precoce introduzione della forchetta, che nella sua fase iniziale passo dal Regno di Napoli, ai palazzi dei dogi veneziani, per poi passare alla corte fiorentina dei De' Medici, che con la sovrana Caterina verrà poi a diffondersi dall'Italia rinascimentale, al regno di Francia, per poi approdare nel resto d'Europa e del mondo, considerata più comoda per mangiare la pasta scivolosa e bollente introdotta nel sistema alimentare, inizialmente mangiata solo dalle classi alte e della nobiltà europea, soprattutto tra i nobili di quelle corti che avevano maggior contatto con il popolo italiano, come gli spagnoli, i francesi e gli austriaci, che consideravano la pasta un'originale leccornia, una stravaganza italiana e una prelibatezza per ricchi, un cibo di nicchia e d'elite, invece in Italia era diffusa maggiormente tra il popolo e tra le classi più basse come cibo quotidiano, al contrario del resto del continente dove non superò mai i palazzi di corte del tempo, se non in epoca moderna.[13]
 
Solo nel quattrocentesco, nel Libro de arte coquinaria di Maestro Martino si trovano le prime indicazioni tecniche per la preparazione dei "vermicelli", "maccaroni siciliani" (per la prima volta il termine indica pasta corta forata) e "maccaroni romaneschi" (tipo tagliatelle). Le ricette dell'epoca prevedevano che la pasta fosse cotta al dente e condita in maniera leggera e nutritiva, così come avrebbe dovuto essere un cibo proprio di gente abituata a lavorare la terra, che aveva bisogno di nutrimento e allo stesso tempo di non appesantirsi lo stomaco per rimanere leggeri e sopportare la fatica, mentre all'estero veniva spesso erroneamente servita come contorno ad altre vivande e specialmente con la carne. Questo gusto, insieme a quello per la pasta scotta, si trova ancor oggi fuori dall'Italia, dove invece nel Seicento Giovanni Del Turco comincia a consigliare una cottura più breve che lasci i maccheroni "più intirizzati e sodi". Classico fu anche l'abbinamento con formaggio grattugiato, come il parmigiano, usato come preziosa mercanzia di scambio in Emilia fin dall'alto medioevo, abbinamento mai scardinato, anche in seguito nella fortunata giunzione col pomodoro che arrivava dalle Americhe a metà del Cinquecento, sperimentatosi e attestatosi con soddisfazione nella società italiana del tempo già dai primi del Seicento e fino alla metà Settecento, con la creazione di vari piatti innovativi, ancor oggi esistenti e comuni nella gastronomia italiana.[14]
 
La pasta nella cultura e nella società
 
Mangiatori di spaghetti, prima del 1886, Napoli.
La pasta è considerata dagli italiani, oltre che un alimento, un elemento di unione condiviso in tutta Italia: essa è parte integrante della vita, della cultura popolare (semplice ma tradizionale) degli italiani, non solo della loro cucina, ma della loro stessa essenza, da sempre. Gli ambienti, i fenomeni e le atmosfere che girano e si creano intorno a un piatto di pasta, entreranno nell'immaginario collettivo riguardante l'italiano medio in tutta Europa, prima nella letteratura e nella musica durante il medioevo, poi nell'opera e nel teatro del periodo rinascimentale, e infine nel cinema, offrendo lo spunto per molti capolavori di fama internazionale, che sono da sempre parte dell'italianità. Riferendosi all'unità d'Italia, a volte politicamente discussa, Cesare Marchi, riconobbe nella pasta un potente simbolo unitario e così la descrisse:
 
« ...il nostro più che un popolo è una collezione. Ma quando scocca l'ora del pranzo, seduti davanti a un piatto di spaghetti, gli abitanti della Penisola si riconoscono italiani... Neanche il servizio militare, neanche il suffragio universale (non parliamo del dovere fiscale) esercitano un uguale potere unificante. L'unità d'Italia, sognata dai padri del Risorgimento, oggi si chiama pastasciutta »
(C. Marchi, Quando siamo a tavola, Rizzoli, 1990)
Medioevo[modifica | modifica wikitesto]
Già nel XIV secolo nel Decameron[15] di Giovanni Boccaccio si fa leva sull'immaginario goloso dei lettori parlando di pasta, cibo già diffuso e comune nel Medioevo, che qui diventa simbolo di abbondanza alimentare.[16]
 
« ...una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'aveva... »
(G.Boccaccio Decameron VIII 3)
Evo Moderno
Nel XVI secolo i maccheroni, divenuti sinonimo del popolo ignorante che se ne nutriva, e spesso simbolo dell'italiano medio all'estero, danno il nome a un genere letterario in latino volgare italo-romanzo, che è quello della poesia maccheronica e all'impasto linguistico con cui è scritta cioè il latino maccheronico, per cui uno degli esponenti di spicco sarà Teofilo Folengo.
 
Ottocento
Nel 1835 Giacomo Leopardi, componendo i Nuovi Credenti, non si fa scrupolo ad attaccare duramente il popolo napoletano spiritualista beffandosi del suo amore per i maccheroni. Egli è nell'ultima fase della sua poetica dove appare più sicuro della sua concezione materialistica del mondo[senza fonte] e più deciso a sostenerla contro la fede del suo tempo nella provvidenza cristiana[senza fonte] e nel progresso politico e tecnico. Suscita la reazione dei napoletani, i quali però, più che le tesi filosofiche, pensano a difendere proprio l'amore per la pasta[senza fonte]. Senza badare al Dialogo di Tristano e di un amico già pubblicato nel 1832, dove Leopardi scagiona il suo pessimismo imputato unicamente alla sua malattia, Gennaro Quaranta nella poesia Maccheronata, risponde così:
 
« E tu fosti infelice e malaticcio, o sublime Cantor di Recanati,
che bestemmiando la Natura e i Fati, frugavi dentro te con raccapriccio.
Oh mai non rise quel tuo labbro arsiccio, né gli occhi tuoi lucenti ed incavati,
perché... non adoravi i maltagliati, le frittatine all'uovo ed il pasticcio!
Ma se tu avessi amato i Maccheroni più de' libri, che fanno l'umor negro,
non avresti patito aspri malanni... E vivendo tra i pingui bontemponi
giunto saresti, rubicondo e allegro, forse fino ai novanta od ai cent'anni... »
Anche il grande compositore Gioachino Rossini, che si autodefiniva "Pianista di terza classe ma primo gastronomo dell'universo", amava la pasta che si faceva spedire direttamente da Roma e da Napoli tanto che nel 1859 in una lettera a un amico si lamenta del ritardo di un carico firmandosi "Gioacchino Rossini Senza Maccheroni".
 
Emigrazione
Con l'inizio dell'emigrazione di massa, la tradizione culinaria italica divenne un luogo comune dispregiativo per apostrofare gli Italiani, i quali vennero soprannominati spesso per le loro abitudini alimentari. La maggior parte di questi appellativi si riferiva proprio alla pasta, termini come: Maccaronì, Pastar, Spaghettifresser, Makaronu, Kabinti, Spaghettix, Espaguetis...etc, erano pronunciati in nazioni differenti, assieme a vari altri ''appellativi'' e stereotipi che l'italiano si porta dietro da secoli, ma con il medesimo significato, cioè: Mangia Pasta, e che non sempre veniva detto in maniera cordiale, anzi, quasi sempre in modo offensivo e ghettizzante.
 
Futurismo
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Cucina futurista.
Nel 1930 Filippo Tommaso Marinetti, nel Manifesto della Cucina Futurista[17], auspica una vera e propria crociata contro gli spaghetti, accusando la pasta di uccidere l'animo nobile, virile e guerriero degli italiani, quasi come se gli abitanti d'Italia fossero diventati vittime della loro stessa tradizione gastronomica così apprezzata e conosciuta all'estero. Ne propone addirittura l'abolizione che, a parere suo e di Benito Mussolini ispiratore della polemica, avrebbe liberato l'Italia dal costoso grano straniero e favorito l'industria italiana del riso. La questione si risolse però rapidamente con un Marinetti immortalato nel ristorante Biffi di Milano nell'atto di mangiare un bel piatto di spaghetti: immancabile seguì una derisione popolare che usò soprattutto questa frase Marinetti dice Basta!/ Messa al bando sia la pasta./ Poi si scopre Marinetti / che divora gli spaghetti.
 
La leggenda[modifica | modifica wikitesto]
Diffusa tra molta gente, soprattutto nel continente americano, è la convinzione completamente falsa ed anacronistica che sia stato Marco Polo al ritorno dalla Cina nel 1295 ad aver introdotto in Italia e di conseguenza in tutto l'Occidente la pasta. Ma questa storia è appunto solo una leggenda, nata negli Stati Uniti nel 1938 sul Macaroni Journal (pubblicato da un'associazione di industriali statunitensi e canadesi, con lo scopo di rendere la pasta familiare ai consumatori americani e favorita dai circoli governativi impegnati a sostenere la coltivazione del grano duro, imbastendo attorno a essa ''simpatiche'' e ''romantiche'' storielle in maniera che la pasta potesse diventare agli occhi dell'americano medio un alimento più ''internazionale'', cercando di allontanarla dal suo contesto naturale, cioè quello dei ghetti italiani e delle ''Little Italy'' sparse per tutti gli Stati Uniti, da dove arrivava, fin dai primi anni dell800 e che erano fortemente criminalizzate dall'opinione pubblica d'oltreoceano)[18]; la novella raccontava appunto in una sezione fumettistica ed infantile, come il famoso navigante veneziano, nel 1295 dopo essere tornato dalla Cina, avesse portato con sé, un fascio di spaghetti cinesi, che sarebbero stati all'origine della pasta italiana, alla quale poi, seguì nel 1939 (un anno dopo del giornale) un'altrettanto fantasiosa pellicola statunitense chiamata ''The Adventures of Marco Polo'', con Gary Cooper, che favorì il radicarsi nell'opinione pubblica globale di queste menzognere convinzioni popolari sull'esploratore veneto e sulla pasta.
 
Questa storia in realtà è assolutamente smentita da qualsiasi storico e da tutti gli studiosi, per varie ovvie ragioni che sono: gli utensili per fabbricare pasta e le rappresentazioni pittoriche nelle tombe etrusche dal X al VI secolo a.C. presenti nel Lazio ed in Toscana; l'attestazione della presenza e del consumo delle laganon (lagane) tra il IX- VIII secolo a.C. in Magna Grecia (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia), i resoconti del poeta greco Aristofane del V secolo a.C. e dei poeti e filosofi latini del IV-III secolo a.C riguardanti l'arte culinaria che parlano ampiamente delle laganum (lasagne-lasagnette); i documenti scritti e conservati in Italia del filosofo arabo Ziryab del 1058, che parla chiaramente dell'uso diffuso della pasta ed in particolar modo delle itryah simili agli spaghetti (che vengono chiamate tutt'oggi trija, in vari dialetti dell'Italia meridionale) ed ai vermicelli in Sicilia e nel sud Italia(derivati dalle laganum); gli scritti del geografo arabo Al-Idrisi alla corte del re normanno Ruggero II di Sicilia, del 1154, che tratta chiaramente ed in maniera ampia e dettagliata il commercio dei vermicelli fabbricati nel pastificio di Trabia vicino Palermo e commercializzati dal sud Italia verso tutto il Mediterraneo; le cronache del 1221 di Fra' Salirnbene Da Parma, che narra delle abitudini alimentari del suo confratello Giovanni Da Ravenna la cui dieta era costituita appunto da pasta; gli scritti del filosofo Jacopone Da Todi che nelle sue lettere al Papa del 1230, descrive il suo amore per i maccaroni; la diagnosi di un medico di Bergamo, che nel 1244 vieta a un suo paziente, un lanaiolo di Genova, di mangiare pasta; il documento del notaio marchigiano Ugolino Scarpa, che nel 1279, alla morte di Ponzio Bastone, un militare genovese suo cliente, descrive le sue misere eredità, tra le quali figura anche una "cesta di maccaroni"; tutte queste prove scritte e presenti, come è semplice osservare dalle date: 1058, 1154, 1221, 1230, 1244, nonché le date presenti nelle attestazioni di epoca etrusca, greca e romana, sono tutte precedenti al ritorno dalla Cina a Venezia di Marco Polo, che torna dal Regno del Katay, nel sud-est della Cina, solo nel 1295, quindi vari secoli ed anni dopo i suddetti documenti, senza citare l'antichità classica la quale sarebbe a più di un millennio di distanza, cosa che rende chiara l'evidenza che la pasta fosse ampiamente conosciuta in Italia da molto tempo prima della stessa nascita di Polo; altra prova inconfutabile è il fatto che al tempo del viaggio di Polo, la corte cinese della quale il navigante fu ospite, e con la quale si relazionò, era composta dalla dinastia mongola di Kubilai Khan, ed i mongoli, allora come oggi, non mangiavano e non mangiano pasta, a differenza del popolo cinese, con il quale Marco ebbe pochissimi contatti, talmente pochi che nel suo libro Il Milione, nemmeno menziona e dà chiari segni di non aver mai visto e di non conoscere i tipici ideogrammi cinesi, né la pasta cinese, né altre usanze dei popoli della Cina che non fossero i mongoli della corte imperiale, con i quali aveva stabilito i suoi rapporti commerciali e di amicizia; l'unica usanza che Polo descrive dei cinesi (e non dei mongoli) è l'uso alimentare dell'albero del pane, dal quale i cinesi ricavavano masse commestibili che Marco dice somigliassero a una sfoglia di lagana che quindi lui stesso dimostra già di conoscere ben prima del suo viaggio e che mai portò in Italia, ma si limitò solo a descrivere questo alimento vegetale cinese.
 
In realtà entrambi i tipi di pasta, sia quello italiano sia quello cinese, sono entrambi di molto precedenti al viaggio di Polo e non hanno nessuna relazione tra loro, sono solo il frutto di due culture distanti e diverse, quella italiana in occidente e quella cinese in oriente, che in maniera parallela ed indipendente, senza che l'una abbia influito sull'altra, hanno sviluppato alcuni alimenti dalle forme simili, ma in realtà diversissimi, sia nel metodo di preparazione, sia per le materie prime impiegate, sia per il modo di lavorazione e cottura, oltre che per i condimenti e non per ultimo per l'essiccazione, che in Cina non era presente; inoltre dei più dei settecento formati di pasta italiani, solo due assomigliano a quelli cinesi e cioè gli spaghetti ed i ravioli che, come già dimostrato, erano presenti in Italia ed anche in Cina parallelamente e già da molto prima del viaggio di Polo, e l'unica cosa che hanno in comune è appunto solo la forma.
 
La frase che scatenò la fantasia degli statunitensi degli anni trenta e che contribuì a formulare la fantasiosa tesi era che, tra le meraviglie del mondo descritte nel Milione,[19] parlando del reame di Fansur, Marco Polo scrive che: Qui à una grande maraviglia, che ci àn farina d'àlbori, che sono àlbori grossi e hanno la buccia sottile, e sono tutti pieni dentro di farina; e di quella farin[a] si fa molti mangiar di pasta e buoni, ed io più volte ne mangiai; a cui, nelle note alla prima versione italiana, Giovan Battista Ramusio aggiunge in seguito che: la farina purgata et mondata, che rimane, s'adopra, et si fanno di quella lasagne, et diverse vivande di pasta, delle quali ne ha mangiato più volte il detto Marco Polo...; e da qui nacque la leggenda, ma ovviamente Polo si riferisce chiaramente all'albero del pane, e lui stesso nomina la pasta e le lasagne che dimostra già di conoscere da quando stava ancora a Venezia (così come il Ramusio che ha accennato alla similitudine tra i due cibi), a parte questo, la precedente ed abbondante documentazione presente in Italia da immemori tempi prima della sua stessa nascita è una prova inappellabile che dimostra che pasta, maccheroni, spaghetti, tagliatelle, ravioli e quant'altro erano popolarissimi tra gli italiani sin dall'antichità, ed a prescindere dai viaggi del navigatore veneziano. Pertanto gli statunitensi, come dice Giuseppe Prezzolini[20], non hanno esitato a prendere il testo del Ramusio, han dato una spintarella e l'han fatto diventare una novella sull'importazione dalla Cina degli spaghetti,[21] rendendo questo racconto una delle tante leggende urbane diffusasi a livello popolare tra la gente di ogni dove, ma che non ha nessuna veridicità storica; ed è stato ampiamente smentito con prove alla mano e tangibili da tutti gli storici che hanno trattato l'argomento.
 
Cinema e televisione
 
Totò in Miseria e nobiltà (1954)
 
Alberto Sordi in Un americano a Roma (1954)
Numerosi i film che riguardano il mondo della pasta, o semplicemente ci giocano. Sono Roma città aperta di Roberto Rossellini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, la commedia Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta portata al cinema da Totò, I soliti ignoti con Totò e Vittorio Gassman, Un americano a Roma con Alberto Sordi e Adua e le sue compagne con Marcello Mastroianni, poi C'eravamo tanto amati, Maccheroni, La cena, Gente di Roma tutti di Ettore Scola e anche Roma e La voce della luna di Federico Fellini.
 
Nel 1957, la BBC trasmette in televisione un documentario molto serio sulla Raccolta primaverile degli spaghetti, dove si diceva che, nel clima favorevole di alcune zone d'Italia, crescessero sugli alberi, facendo volare l'immaginazione dei bambini di mezzo mondo e creando un'altra infantile leggenda metropolitana tra i fanciulli degli anni cinquanta e sessanta, che nella loro fantasia pensavano che se fossero venuti in Italia avrebbero potuto raccogliere gli spaghetti dagli alberi. Il programma, pure se non come quello su La guerra dei mondi di Orson Welles, fu molto convincente, ed alcuni telespettatori del tempo, soprattutto anglosassoni, recatisi per le vacanze nella penisola italica, si misero seriamente alla ricerca delle fantastiche piantine, producendo conseguenze esilaranti tra la popolazione locale.
 
Pasta all'italiana[modifica | modifica wikitesto]
La pasta alimentare conforme alla legge e alle tradizioni locali è un alimento tipico italiano, nelle sue varianti locali, regionali ed artigianali, salvaguardato e protetto dalle contraffazioni dal Governo Italiano e dalla CEE. .
 
« ...il nostro più che un popolo è una collezione. Ma quando scocca l'ora del pranzo, seduti davanti a un piatto di spaghetti, gli abitanti della Penisola si riconoscono italiani... Neanche il servizio militare, neanche il suffragio universale (non parliamo del dovere fiscale) esercitano un uguale potere unificante. L'unità d'Italia, sognata dai padri del Risorgimento, oggi si chiama pastasciutta »
(C. Marchi, Quando siamo a tavola, Rizzoli, 1990)
In Italia la pasta secca, che costituisce i tre quarti dei consumi totali, è ottenuta tramite l'unica e particolare tecnica italiana della trafilazione al bronzo, dalla laminazione e conseguente essiccamento di impasti preparati esclusivamente con semola o semolato di grano duro (di cui il 50% del fatturato nazionale è prodotto in Capitanata, cioè nel Tavoliere delle Puglie, in provincia di Foggia) ed acqua. La legge ne stabilisce chiaramente le caratteristiche e le eventuali denominazioni con il Decreto del Presidente della Repubblica n.187 del 9 febbraio 2001[22]. L'altro quarto dei consumi è rappresentato dalla pasta fresca, per cui, oltre a un più elevato livello di umidità e di acidità, è previsto anche l'impiego occasionale del grano tenero e la sfogliatura dell'impasto in alternativa alla trafilazione. Il 27 settembre 2006, alla camera dei deputati è stata presentata una proposta di legge per l'istituzione di un Festival nazionale itinerante della pasta italiana[23].
 
L'Italia è al primo posto nel consumo di pasta: stando al 2014 vengono consumati 25 kg annui pro capite, mentre Tunisia (16 kg), Venezuela (12 kg) e Grecia (11,2 kg) si situano subito dopo.[24] L'Italia resta sempre leader nel mercato globale della pasta con 3,5 milioni di tonnellate prodotte nel 2014, di cui il 57% è esportato, in particolar modo in Germania (18,3%), Regno Unito (14,1), Francia (14,1), Stati Uniti (7,7) e Giappone (3,5)[24][25] per un valore di circa 2 miliardi di euro, contro il 54% del 2010, il 48% del 2000 ed il 5% del 1955.[24] Subito dopo seguono, stando a dati del 2007, gli Stati Uniti con 2 milioni ed il Brasile con 1,5 milioni di tonnellate prodotte.[26]
Non ugualmente in relazione alla produzione di grano duro, da cui è fatta la pasta: sebbene fino al 2006 l'Italia fosse la prima produttrice (4,5 milioni di tonnellate), a causa della riduzione delle superfici coltivate nel 2014 ne vengono prodotte 4,1 milioni di tonnellate, a confronto delle 4,8 del Canada.[27] Questa quantità non soddisfa le necessità delle aziende pastarie, che importano il 30-40% del loro fabbisogni di grano dall'estero, ossia 2,3 milioni di tonnellate nel 2015[28] (nel XIX secolo era il 70%),[29] in particolare da Canada, USA, Australia, Russia e Francia[30] ed in aumento per quanto riguarda Ucraina (600 milioni) e Turchia (50 milioni)[29] (con variazioni aziendali, dal 25% di grano estero usato dalla Barilla[31] al 40-50% di Divella[32]). Questo, comunque, permette ugualmente alle aziende di definire la pasta prodotta in Italia come "made in Italy",[33] sebbene esistano anche aziende che producono pasta utilizzando solo semola italiana, il che però fa sì che il prodotto costi circa il 15% in più della media, anche a causa di un contenuto proteico molto alto (generalmente superiore al 13%).[34] Nel 2016 la produzione nazionale si alza a circa 5,5 milioni di tonnellate, che comunque non soddisfano i 5,8 milioni utilizzati solamente per produrre pasta.[29]
 
Pasta secca
 
Due tipi di pasta secca: spaghetti e fusilli, chiamati anche eliche.
Le paste alimentari prodotte industrialmente e destinate al commercio, secondo la legge italiana, possono essere solo di acqua e semola/semolati di grano duro nei tipi e con le caratteristiche riportate nella tabella sottostante, dove il grado di acidità è espresso dal numero di centimetri cubici di "soluzione alcalina normale" occorrente per neutralizzare 100 grammi di sostanza secca.
 
Tipo e denominazione Umidità massima % Ceneri min. (%) Ceneri max. (%) Proteine min. (%) (azoto x 5,70) Acidità massima in gradi
Pasta di semola di grano duro 12,50 - 0,90 10,50 4
Pasta di semolato di grano duro 12,50 0,90 1,35 11,50 5
Pasta di semola integrale di grano duro 12,50 1,40 1,80 11,50 6
Tutte le paste contenenti ingredienti diversi sono considerate paste speciali e devono essere messe in commercio con la dicitura "pasta di semola di grano duro" completata dalla menzione dell'ingrediente utilizzato e, nel caso di più ingredienti, di quello o di quelli caratterizzanti.
 
 
Diversi tipi di pasta secca all'uovo.
Pasta all'uovo
Qualora nella preparazione dell'impasto siano utilizzate uova, la pasta speciale deve rispondere a ulteriori requisiti. La pasta all'uovo deve essere prodotta esclusivamente con semola e uova intere di gallina, prive di guscio, almeno 4 o comunque per un peso complessivo non inferiore a duecento grammi di uovo per ogni chilogrammo di semola. Le uova possono essere sostituite da una corrispondente quantità di ovoprodotto liquido fabbricato esclusivamente con uova intere di gallina, rispondente ai requisiti prescritti dal decreto legislativo 4 febbraio 1993, n.65[35].
 
Questa pasta deve essere posta in vendita con la sola denominazione pasta all'uovo e deve avere le seguenti caratteristiche: umidità massima 12,50%, contenuto in ceneri non superiore a 1,10 su cento parti di sostanza secca, proteine (azoto x 5,70) in quantità non inferiore a 12,50 su cento parti di sostanza secca, acidità massima pari a 5 gradi, estratto etereo e contenuto degli steroli non inferiori, rispettivamente, a 2,80 grammi e 0,145 grammi, riferiti a cento parti di sostanza secca. Il limite massimo delle ceneri per la pasta all'uovo con più di 4 uova è elevato mediamente, su cento parti di sostanza secca, di 0,05 per ogni uovo o quantità corrispondente di ovoprodotto in più rispetto al minimo prescritto. Nella produzione delle paste, delle paste speciali e della pasta all'uovo è ammesso il reimpiego, nell'ambito dello stesso stabilimento di produzione, di prodotto o parti di esso provenienti dal processo produttivo o di confezionamento; è inoltre tollerata la presenza di farine di grano tenero in misura non superiore al 3 per cento.
 
La pasta prodotta in altri Paesi (soggetti ad altri regolamenti), in tutto o in parte con sfarinati di grano tenero e posta in vendita in Italia, deve riportare una delle denominazioni di vendita seguenti:
 
pasta di farina di grano tenero, se ottenuta totalmente da sfarinati di grano tenero
pasta di semola di grano duro e di farina di grano tenero, se ottenuta dalla miscelazione dei due prodotti con prevalenza della semola
pasta di farina di grano tenero e di semola di grano duro, se ottenuta dalla miscelazione dei due prodotti con prevalenza della farina di grano tenero.
Pasta fresca[modifica | modifica wikitesto]
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Sfoglia.
 
Pasta fresca.
 
Produzione casalinga di pasta fresca ripiena (cappelletti).
La legge italiana consente la preparazione di paste fresche secondo le prescrizioni stabilite per le secche, eccetto che per l'umidità e l'acidità, che non deve superare il limite di 7 gradi. Le paste alimentari fresche, poste in vendita allo stato sfuso, devono essere conservate, dalla produzione alla vendita, a temperatura non superiore a +4 °C, con tolleranza di 3 °C durante il trasporto e di 2 °C negli altri casi; durante il trasporto dal luogo di produzione al punto di vendita devono essere contenute in imballaggi, non destinati al consumatore finale, che assicurino un'adeguata protezione dagli agenti esterni e che rechino la dicitura "paste fresche da vendersi sfuse".
Il consumo del prodotto deve avvenire entro cinque giorni dalla data di produzione.
 
Le paste alimentari fresche, poste in vendita in imballaggi preconfezionati, devono possedere i seguenti requisiti:
 
avere un tenore di umidità non inferiore al 24 per cento;
avere un'attività dell'acqua libera (Aw) non inferiore a 0,92 né superiore a 0,97;
essere state sottoposte al trattamento termico equivalente almeno alla pastorizzazione;
essere conservate, dalla produzione alla vendita, a temperatura non superiore a +4 °C, con una tolleranza di 2 °C.
Per facilitare i trasporti e allungare la conservazione è consentita la preparazione di paste fresche stabilizzate, ossia paste alimentari che abbiano un tenore di umidità non inferiore al 20 per cento, un'attività dell'acqua libera (Aw) non superiore a 0,92 e che siano state sottoposte a trattamenti termici e a tecnologie di produzione che consentano il trasporto e la conservazione a temperatura ambiente. Negli ultimi anni, inoltre, le industrie alimentari hanno proposto la pasta in vari formati cotti, conditi secondo ricette tradizionali e poi surgelati che, come tali, sottostanno anche alle norme sulla surgelazione. È proposta, sempre precotta ma non surgelata, anche in confezioni sigillate utilizzabili a breve scadenza.
 
 


#147 Guest_deleted32173_*

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Inviato 01 marzo 2017 - 07:39

Perchè gli animali non parlano?
 
Voce.jpg
 
In verità la domanda è malposta, la domanda corretta dovrebbe essere : “Perchè gli animali non parlano come l’uomo?”. E’ ormai infatti assodato che ogni specie animale ha un proprio linguaggio basato a volte sugli odori, su i versi, sul contatto ed inoltre la maggior parte delle specie più comuni possiedono un complicato linguaggio del corpo.
 
La comunicazione non è una prerogativa umana ma è alla base dei vari gruppi di esseri viventi che la utilizzano nei modi più appropriati,si comunica per trasmettere qualcosa, per far capire, per influenzare, per ottenere una reazione così come nel mondo animale così in quello “umano”. A ben pensare a prima vista il linguaggio animale sembrerebbe più completo del nostro,noi usiamo la parola,ma quante volte noi non riusciamo a capire o non riusciamo a farci capire da chi ci sta di fronte. Comunque, l’uomo è stato capace di sviluppare linguaggi ben più complessi di quello vocale, linguaggi come la matematica dove non ci possono essere fraintendimenti.
 
Riprendendo la domanda posta all’inizio, negli anni passati alcune ricerche avevano posto la possibilità che abbia un ruolo, nell’impossibilità di poter parlare da parte degli animali, un gene noto come Foxp2, la cui composizione è simile in quasi tutti i vertebrati ma si è scoperto che lo stesso gene ha differenti funzioni negli animali e nell’uomo. In questo ultimo ha la funzione di regolare le abilità cognitive necessarie per il linguaggio mentre negli animali é importante per la coordinazione dei muscoli implicati nell’emissione di suoni. Senza però tirare in ballo questo gene si può subito rispondere che gli animali non parlano come noi a causa di una diversa conformazione dell’apparato fono-articolatorio e comunque anche per il fatto che noi abbiamo aree del cervello specificamente deputate all’elaborazione e alla produzione di stimoli verbali.
 
Nonostante questa impossibilità di comunicare verbalmente con gli animali, è esperienza quotidiana riuscire a farsi capire dagli animali domestici. In rete trovate video in cui animali sembrano o si sforzano a replicare il linguaggio umano, un pò come fanno i pappagalli, ma ovviamente un cane o un gatto non potrà mai parlare la lingua umana, è il nostro cervello che legge in quei versi assonanze con la nostra lingua.
 
In letteratura esistono i casi di alcune scimmie antropomorfe con cui si è riusciti ad ottenere degli ottimi risultati di comunicazione. Il caso dello scimpanzè Washoe che negli anni 70 riuscì ad apprendere la lingua dei gesti dei sordomuti nordamericani imparando ben 120 segni e riuscì a creare anche nuove frasi elementari. Un altro caso importante si è documentato negli anni 90, il caso di Kanzi, un bonobo che fu istruito a comprendere enunciati complessi in lingua inglese e fu in grado di dimostrare il possesso ricettivo della sintassi da parte di un primate non umano, imparando inoltre spontaneamente a gestire un linguaggio artificiale di tipo simbolico.
 
Gli animali parlano, eccome se parlano! basta solo saperli ascoltare.
 
 


#148 Guest_deleted32173_*

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Inviato 08 marzo 2017 - 12:07

Ggli slip hanno una tasca interna?
 
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Le donne avranno fatto sicuramente caso ad una particolarità che ogni slip che si rispetti rivela avere: la presenza di una sorta di taschina proprio dove poggia la parte intima. Vi siete mai chiesti il motivo della sua esistenza? Per qualche motivo questa specie di tasca? Oggi finalmente vi toglieremo questa curiosità.
 
La sua presenza è giustificata da un motivo che riguarda l’igiene e la salute. In realtà, più che di una tasca, si dovrebbe parlare di un doppio rivestimento, uno strato di tessuto in più. È una specie di rinforzo, non cucito del tutto che serve ad assicurare agli slip una durata più lunga. Un a specie di doppia pelle utile a mantenere anche a preservare l’igiene personale non sempre garantita da tessuti come seta, pizzo, etc.
 
Si tratta di una zona, quella intima, piuttosto delicata. È necessario fare il massimo per evitare che i batteri lì sotto si sviluppino troppo rapidamente provocando l’alterazione della flora vaginale. Indossare slip col doppio rivestimento è una soluzione più che valida.
 
Con slip di questo tipo, preverremo irritazioni da sfregamento e sudorazione. Gli slip più provocanti non hanno questo doppio fondo, per un semplice motivo: si suppone che il loro uso sia ridotto a poche ore.
 
Ora che sapete a cosa serve, scegliere sempre slip di questo tipo. Sono di certo i migliori sul mercato.
 
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#149 Guest_deleted32173_*

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Inviato 15 marzo 2017 - 06:48

Manga
 
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Tendenzialmente in Europa si identifica il fumetto con una produzione per bambini e ragazzi. I manga, con le loro figure dai tratti spesso infantili (come gli occhi grandi) ad un occhio inesperto, suscitano inizialmente una certa confusione. L'origine di questa caratteristica è un prestito culturale che si fa risalire al 1946 quando il famoso autore Osamu Tezuka (1928-1989), soprannominato il dio dei manga vide pubblicato il suo primo manga (Maachan no Nikkichō). Egli stesso, grande ammiratore di Walt Disney, ammette di essersi ispirato nel manga Kimba, il Leone Bianco (ジャングル大帝, Jungle Taitei) allo stile del Bambi disneyano (curiosamente in seguito la Disney, per via di alcune polemiche sulla somiglianza tra Il re leone e Kimba, il Leone Bianco, ha ammesso di essersi ispirata a sua volta all'opera di Tezuka).[15] Tuttavia, ormai è difficile considerare lo stile di disegno come "manga", poiché numerose pubblicazioni presentano stili di disegno molto differenti, ad esempio Angel Heart oppure Berserk. La differenza più evidente tra il fumetto manga e quello occidentale risiede nelle modalità di narrazione, regia, impaginazione e il rapporto che la storia ha con i personaggi.
Il fumetto giapponese possiede una gabbia di impaginazione più larga rispetto all'occidentale (180x270 mm); il formato standard di lavorazione è il B4 serie JIS (257 × 364 mm) per i volumi professionali e A4 (210 × 297 mm) per le doujinshi, invece l'occidentale è in genere elaborato su un formato molto grande, dall'A3 in su. Mentre l'occidentale è formata da uno schema di gabbia formato da dodici quadrati, il manga si sviluppa su un numero medio di sei o otto quadrati (come il fumetto Disney), a parte eccezioni ad esempio negli shonen o le scene veloci, che hanno uno schema con più quadrati, arrivando a sfiorare la frequenza di riquadratura occidentale.
L'impaginazione e la struttura della pagina
Il fumetto giapponese si legge al contrario rispetto al fumetto occidentale, cioè dall'ultima alla prima pagina (secondo le consuetudini orientali), con la rilegatura alla destra del lettore e le pagine "libere" alla sinistra. Anche le vignette si leggono da destra verso sinistra, dall'alto verso il basso. Esistono, tuttavia, alcuni manga che si leggono da sinistra verso destra, cioè secondo l'usanza occidentale.
Nel corso del tempo ci sono stati alcuni mutamenti nella disposizione delle vignette. Inizialmente prevaleva la disposizione verticale; successivamente, nei tardi anni quaranta, è stata introdotta anche la disposizione orizzontale, quella attuale. Nelle storie più accurate dal punto di vista stilistico queste due disposizioni si sovrappongono e vengono entrambe usate, creando un percorso di lettura piuttosto complesso per le abitudini del lettore occidentale, ma con un preciso intento stilistico. In realtà un lettore giapponese, allenato alla lettura non alfabetica, riesce più facilmente di un lettore occidentale alle prime armi a orientarsi in questo universo di segni, dove gli viene offerta una grande libertà di percorso. Gli occhi vagano nella pagina cogliendo inizialmente alcuni dettagli, scelgono di soffermarsi prima su alcuni tipi di testo e poi su altri, ricavando alla fine non una lettura analitica di contenuti, ma una coinvolgente impressione generale di ciò che sta accadendo.
A differenziare il manga dagli altri stili fumettistici è innanzitutto l'importanza che viene data all'atmosfera, alle emozioni ed all'introspezione dei personaggi. Vi è uno studio più approfondito dell'impaginazione, basato sui tagli e le inquadrature: queste ultime rimangono le stesse utilizzate in qualsiasi altro stile fumettistico, ad eccezione del piano d'azione, che non viene quasi mai utilizzato.
 
Ordine di lettura di un manga
Per quanto riguarda ai tagli delle vignette, possiamo dividerle in:
orizzontali: utilizzate nello stesso tempo per creare uno stacco fra lo schema a due vignette affiancate, quindi per guidare meglio lo sguardo di lettura, ma anche per un ritmo di lettura più lento (nel caso del fumetto di lettura giapponese. Per quanto riguarda la lettura occidentale è il contrario);
verticali: il contrario delle vignette orizzontali per quanto riguarda al ritmo (non dimentichiamo che per la lettura occidentale è l'inverso):
diagonali: singole o combinate con inquadrature altrettanto inclinate, generano un'atmosfera di tensione emotiva e possono essere calanti o ascendenti. A seconda delle due, la situazione "precipita" o si tranquillizza, sfumando in una situazione meno tesa;
vignette chiuse o aperte: quasi esenti dal fumetto occidentale, nel fumetto giapponese hanno un'importanza vitale, in quanto una vignetta fino al Tachikiri guida quasi sicuramente il lettore verso la pagina successiva ed è utile per le scene molto importanti, contrariamente alle vignette chiuse.
Inizialmente i manga pubblicati in Italia avevano senso di lettura occidentale (le tavole venivano quindi prima ribaltate e poi edite). Furono i Kappa Boys a introdurre anche qui il senso di lettura originale, con la pubblicazione di Dragon Ball per Star Comics, anche per via dell'editore originale Shūeisha che non apprezzava il ribaltamento delle tavole.
I balloon
I dialoghi, (anche se il manga tende a "illustrare" e non "spiegare") sono posti in balloon variabili, che vanno dal molto piccolo al molto grande. Questa differenza può essere data dal volume che ha il dialogo in quel momento, piuttosto che dall'importanza che ha lo stesso nella scena. Una frase scioccante sarà più importante di una di sfondo, per cui verrà posta in una nuvola molto grande (nel fumetto occidentale l'importanza della frase viene data in genere dall'evidenziare con una scritta in grassetto).
Si preferiscono dialoghi brevi, per evitare che il lettore si intimorisca di fronte a un discorso troppo lungo e lo salti; inoltre in Giappone si preferisce scriverli a mano, piuttosto che con qualche strumento vettoriale, molto in uso in occidente. Le didascalie sono rare.
La tecnica
Abitualmente in Giappone si utilizzano materiali realizzati appositamente per questo tipo di fumetto, come fogli riquadrati in ciano (colore non visibile in scansione bianco e nero), pennini con varie modulazioni, righelli appositamente preparati per le linee cinetiche, retini e attrezzi per applicarli.
Generalmente la tavola manga non è né a colori né in scala di grigi, ma in bianco e nero, scelta che deriva dall'utilizzo che il volume manga ha: essendo inizialmente un prodotto da pubblicare su riviste contenitore, in Giappone raramente le si conserva e, per evitare spese di stampa inutili, si preferisce utilizzare un'economica stampa in bianco e nero; oltre a questo, la rivista contenitore è una sorta di "anteprima", per attirare consensi per un titolo da parte dei lettori, per poi in un futuro, stampare i volumi tankōbon a esso riservati.
Le ombre, anche mantenendo il bianco e nero, vengono date raramente dai neri pieni e più facilmente dai retini grattabili; i colori delle eventuali pagine a colori di edizioni speciali e delle riviste vengono tendenzialmente realizzati a china oppure a pantone (i più famosi ed usati sono i copic).
In Occidente non si bada troppo a quale materiale utilizzare e i tempi di consegna sono decisamente più larghi, permettendo così al fumettista di potersi permettere di utilizzare scelte tecniche più elevate e strumenti più ampi.
La pubblicazione in Giappone
 
Alcuni titoli esposti in un negozio di manga in Giappone
I manga vengono pubblicati in Giappone inizialmente all'interno di grossi albi, stampati in bianco e nero su carta di qualità scadente. Soltanto alcune pagine introduttive sono talvolta a colori e su carta migliore, generalmente allo scopo di introdurre i personaggi della vicenda.
In ognuno di questi albi vengono raccolte numerose storie a puntate. Tramite un'inchiesta fra i lettori viene verificato il successo delle singole serie, cosicché alcune possono essere interrotte anzitempo e altre, al contrario, meritare di essere stampate a parte, sotto forma di albi monografici di qualità migliore in più volumetti (tankōbon). Si distinguono fondamentalmente tre formati di pagina per i manga: il più classico è il B6 (circa 12,5×18 cm), ma sono utilizzati anche, per edizioni più lussuose, l'A5 (15×21 cm) e il B5 (18×25 cm).
A differenza dei fumetti occidentali, le avventure dei manga hanno, per quanto riguarda i protagonisti, un inizio ed una fine. Il personaggio ideato dall'autore e/o disegnatore appare sulla scena nel primo volume, "vive" la sua vicenda e, al termine della serie (quelle di successo possono protrarsi per diversi anni e centinaia di puntate), esce di scena e non "interpreterà" altre serie. Alcune eccezioni si possono rilevare per personaggi molto amati dal pubblico, che vengono ripresentati in varianti della storia principale, oppure di cui si raccontano episodi accaduti anteriormente all'inizio della serie principale. Spesso il successo di un personaggio di un manga si risolve in una trasposizione più o meno fedele delle sue avventure sotto forma di anime.
La prima rivista per ragazzi, Shōnen Kurabu fu pubblicata dalla Kodansha nel 1914, mentre quella per ragazze, Shōjo Kurabu, dalla stessa casa editrice nel 1923.
I manga nel mondo
Non bisogna confondere i manga con i manhwa (coreano 만화, giapponese 漫畵), che sono i fumetti coreani; all'occhio non allenato possono sembrare simili, ma agli occhi di un giapponese sono probabilmente simili quanto fumetti italiani e francesi per noi, specie se consideriamo che il senso di lettura del manhwa è identico a quello occidentale.
Legati ai manga esistono anche i manhua (漫画 · 漫畫), prodotti in lingua cinese, realizzati a Taiwan, Hong Kong e, in minor misura, in Cina, l'Amerimanga e l'Euromanga.
I manga in Italia[modifica | modifica wikitesto]
Il fenomeno manga comincia ad affermarsi maggiormente agli inizi degli anni novanta, grazie a case editrici come la Glénat, con la pubblicazione di Akira, e la Granata Press, con la pubblicazione di Ken il guerriero e di riviste come Mangazine e Zero, e successivamente la Star Comics.
È tuttavia importante sottolineare che Fabbri editori diede alle stampe dal dicembre 1979 la rivista a fumetti Il grande Mazinga, contenente il fumetto originale seppur in una versione edulcorata da scene violente e appositamente colorata da staff italiano. Attraverso Il grande Mazinga viene segnato un momento importante nella storia dei manga in Italia, essendo stato il primo manga pubblicato direttamente dall'edizione giapponese. Alla rivista sarebbero seguiti due volumi dal titolo Io sono il grande Mazinga e Mazinger contro i Mazinger, che raccolgono parte delle storie pubblicate contemporaneamente in rivista per le edicole. Nell'ottobre del 1980 Fabbri pubblica il primo numero del settimanale Candy Candy. La longeva testata, prima di una lunga serie intitolata al personaggio e alla quale si aggiunse in seguito Lady Oscar, appassionerà il pubblico femminile per anni. In seguito, esaurito il materiale originale, il giornale è continuato attraverso nuove avventure appositamente ideate da disegnatori italiani. Nel 1980 è la volta di Golgo 13 e nel dicembre 1983 di Black Jack di Osamu Tezuka, entrambi sul mensile Eureka. Sembra tuttavia che il primo manga in assoluto pubblicato in Italia sia stato Son Goku di Shifumi Yamane, da Garzanti nel 1962, ma sulla sua originalità vi è più di un dubbio.
Altre case editrici di manga in Italia sono: Flashbook Editore, specializzata in manga e manhwa coreani, Planet Manga della Panini, J-Pop, Magic Press (che diversifica i propri prodotti in tre etichette: MX per i manga generici, 801 per gli yaoi e Black Magic per gli hentai) e Planeta De Agostini. Di recente si è aggiunto l'editore GP Publishing, della Giochi Preziosi, che al debutto si avvalse della consulenza dei Kappa Boys, prima in forze alla Star Comics.[17] Dal 2008 anche la Disney ha iniziato a pubblicare manga nella collana Disney Manga, tra cui Kingdom Hearts. Il loro successo in Italia ha fatto sì che manga e anime venissero citati anche in alcune opere letterarie giovanili, come per esempio nel romanzo di Isabella Santacroce Destroy, in cui la protagonista, Misty, è un'accanita lettrice di fumetti giapponesi, oppure in Come un fumetto giapponese di Gianfranco Liori dove il protagonista, anche qui otaku accanito, scappa di casa per recarsi alla più importante manifestazione di fumetti italiana, il Lucca Comics.
Dalla fine degli anni novanta il "manga made in Italy" sta tentando di emergere, con iniziative spesso precarie e tentativi andati a vuoto. Nel 1997, ad esempio, la casa editrice Comic Art pubblicò una serie di fumetti intitolata Spaghetti manga, realizzata da autori italiani, che però non ebbe molto successo. Pugno! di Roberto Recchioni fu uno dei titoli di maggiore rilievo. Comic Art pubblicò successivamente diverse testate manga tra le quali ricordiamo per successo di pubblico e critica L'Immortale di Hiroaki Samura, Noritaka, Detective Conan. Il fallimento della stessa interruppe la serializzazione, ripresa poi da altri editori, in primis la Marvel Italia. Altre riviste contenitore, dedicate anche ad autori italiani, non sono riuscite ad avere un successo apprezzabile, come nel caso di Yatta! (soprattutto dedicata ai manga giapponesi, ma anche con iniziative internazionali), rivista mensile pubblicata da Play Press durante il triennio 2004-2006 su modello delle riviste giapponesi di manga, oppure la recentissima Mangaka, della Coniglio Editore, interrotta ufficialmente all'inizio del 2010 dopo appena due numeri.[18]
Nel 2009 comincia la pubblicazione, in 8 volumi, de Cronache del Mondo Emerso, basato sull'omonimo ciclo fantasy di Licia Troisi e disegnati inizialmente da Ferrario. In seguito all'accusa di plagio, Ferrario fu sostituito da Massimo Dall'Oglio. Lo stesso autore pubblicherà nel 2014, con la Sergio Bonelli Editore, Orfani nº4 e Agenzia Alfa nº32. Nel 2013 Planet Manga pubblica Somnia, un fumetto di quattro volumi creato da Federica Di Meo e Liza E. Anzen, a cui, visto il successo riscosso, seguirà una seconda serie di prossima pubblicazione. Nonostante il tiepido miglioramento concerne la pubblicazione dei fumetti stile giapponese in Italia, ancora si è lontani però dal raggiungere obiettivi degni di maggior nota.
La pubblicazione di fumetti italiani in stile/tecnica giapponese ha invece un po' più riscontro online, complici il fattore gratuità e le potenzialità del mezzo di Internet. Così, nel 2007 nasce la web magazine Mangaijin , che per prima riesce a mettere a disposizione uno spazio che raggruppi e pubblichi gratuitamente numerosi fumetti italiani in stile giapponese, dando così visibilità a numerosi giovani aspiranti fumettisti operanti nel Bel Paese. Nel 2010, poco dopo aver superato le venti pubblicazioni, il progetto viene interrotto per poi riprendere per un breve periodo nel 2012.
Nel 2011 nasce la web magazine Mangakugan. La rivista rispetta una frequenza circa bimestrale fino al numero 6, in seguito al quale inizia ad alternarsi con una rivista appendice denominata Mangakugan Light, che raccoglie light novel di giovani scrittori e illustratori italiani, e grazie alla quale viene raggiunta una frequenza di pubblicazione circa mensile. Il 13 maggio 2012 viene fondato Doraetos Manga, che col numero 0, uscito nell'agosto del 2012, comincia la pubblicazione di una rivista contenitore omonima, cui seguono altri sette numeri, di cui i primi cinque usciti con cadenza variabile; dal 21 dicembre 2014 la pubblicazione del periodico diviene trimestrale. Doraetos non si limita solo a pubblicare fumetti, ma è anche specializzata a realizzare articoli e approfondimenti sul fenomeno "manga non giapponesi". Nel settembre del 2012 nascono altre due riviste: Manga Stars e Young Force, contando entrambe cinque pubblicazioni in un anno di attività che, per l'ultima menzionata, termina l'anno seguente. Sempre nel 2013 la web magazine Manga Stars continua il suo operato, seppure a ritmi più lenti, inaugurando la versione Debut della propria rivista dove pubblica gli autori meno esperti del progetto per dare anche a loro una visibilità.
Al 2014 le uniche riviste contenitori di fumetti italiani japstyle ancora in corso di pubblicazione sono Doraetos Manga e Mangakugan. Da segnalare è la nascita di una nuova tendenza di alcuni autori ad auto-pubblicarsi, sia in formato cartaceo (vedesi ad esempio Medusa Flames di Luca Donnaruma e Rossana Zhan e i fumetti creati da Valeria Tenaga Romanazzi) sia su piattaforme digitali come Inkblazers, Webcomics, Deviant Art e Facebook.
A cavallo tra formato digitale e cartaceo, diverse sono le case editrici che sino a oggi hanno scommesso sugli autori italiani. In particolare è possibile citare Shockdom Edizioni con Greedy Flower ed AEON, Renbooks, Kasaobake e Bellesi&Francato Publishing.
Su gran parte del territorio nazionale sono inoltre disponibili corsi di fumetto giapponese, come quelli tenuti dall'Accademia Europea di Manga o dalla Scuola Internazionale di Comics, che hanno contribuito alla formazione di uno svariato numero di fumettisti e illustratori in stile giapponese.
La questione dei manga non-giapponesi
Oggi è difficile stabilire esattamente cosa differenzi un manga dal fumetto occidentale. Come ha riassunto la mangaka Keiko Ichiguchi: «[Fumetto e manga] sono uguali, i fumetti sono fumetti. Si vuole distinguere il manga, però il manga è fumetto: lo stile è soltanto un po' diverso, però io non trovo tanta distanza».
Secondo Eijiro Shimada, editor-in-chief per le riviste Morning/Morning 2 ed organizzatore della Kodansha Morning International Manga Competition, la concezione occidentale dei manga è del tutto diversa da quella che c'è in Giappone, a conferma della differente accezione del termine esistente. In un'intervista, l'editor ha affermato quanto segue:
« Ho sentito concretamente durante la mia visita (negli USA) che il manga è letto in tutto il mondo, ma ho anche capito che il manga non è ancora diventato un media globale. Potrà anche essere letto ovunque ma questo non significa necessariamente che è un media globale. In Giappone, il manga è considerato come un media globale, ma il viaggio negli States mi ha fatto capire che il manga deve fare ancora molta strada per diventarlo. Per esempio, con nostra grande sorpresa, negli States solo i manga creati in Giappone vengono considerati "veri manga" anche se i lavori degli artisti americani appaiono e vengono "sentiti" come manga e utilizzano la "grammatica" visiva di un manga... Manga include qualsiasi cosa, come fumetti di supereroi e fumetti europei ecc. Anche se chiamiamo il nostro concorso "Morning International MANGA competition", non usiamo il termine "manga" in senso stretto per intendere un'arte visiva "in stile giapponese". Manga può essere riferito ad ogni arte visiva che utilizza la narrazione, inclusi i comics americani, le bande desinee e i cartoons. Basandosi sul loro intuito acuto, i mangaka giapponesi hanno delineato molti meravigliosi ed affascinanti aspetti dell'umanità, al fine di raggiungere l'apprezzamento delle masse, incluso il pubblico adulto. Il dipartimento delle riviste Morning e Morning 2, gli organizzatori del MICC, hanno stabilito per loro un pubblico di lettori adulti-più maturi. Ciò che può essere detto è che la ragione per cui il manga attrae non solo bambini ma anche gli adulti è la sua profonda caratterizzazione. Per questo motivo tendiamo automaticamente a pensare che "il manga è qualcosa che descrive in modo vivido e profondo gli esseri umani. »
(Eijiro Shimada, The first M.I.M.C. result announcement)
Altre scuole di pensiero affermano che il manga sia una questione di stile visivo, reinterpretazione grafica della realtà, quindi una tecnica di disegno fissa e consolidata. Secondo altri, è invece la cultura giapponese intrinseca nelle pagine dei fumetti a rendere il fumetto un manga. Oggi si tende a polemizzare sul fatto che il manga italiano sia solo un'imitazione, poiché culturalmente è impossibile creare un manga, un oggetto che fa parte della cultura nipponica legato direttamente con le tradizioni locali.
In Francia nacque la nouvelle manga, una corrente fumettistica che lega insieme la bande dessinée con gli stessi manga; negli Stati Uniti venne coniato il termine amerimanga, per indicare i manga statunitensi.
 
 
 


#150 Guest_deleted32173_*

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Inviato 22 marzo 2017 - 06:33

Pop corn
 
 
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Film e popcorn: un rito che si celebra in tutto il mondo praticamente dall’avvento del cinema. Siamo passati dalle pellicole mute e in bianco e nero, a quelle sonore e a colori, dal megaschermo con il dolby surround, alla magia del 3D, ma gli spettatori seduti sulle poltroncine nel buio della sala continuano a infilare meccanicamente le mani nei mega contenitori di popcorn portandoseli alla bocca rapiti dalle immagini del film. E tutto questo da oltre un secolo. La prima macchina a vapore per la produzione di popcorn risale al 1893, e fu subito adottata dalle fiere, dai circhi e di lì a poco dal cinema (nato ufficialmente nel 1896).
 
A scoprire che un forte calore fa scoppiare (pop) le palline di mais (corn), sono state le popolazioni indigene dell’America parecchie migliaia di anni fa, sia in Messico che in Perù. Ci sono tracce della presenza di questo alimento nel New Mexico che risalgono al 3600 avanti Cristo. Gli Aztechi li utilizzavano come elemento decorativo per i capelli, ma li indossavano anche in forma di collana. Le bianche palline venivano usate anche durante le cerimonie in onore degli dei.
 
Dalle Americhe arriva il mais
 
Il mais veniva cotto sulle pietre riscaldate, oppure inserendo l’intera pannocchia tra i tizzoni della brace. Durante le loro esplorazioni Hernán Cortés e Cristoforo Colombo si imbatterono in queste curiose e morbide palline, che però non varcarono l’oceano, mentre a essere portato subito in Europa fu il mais, ribattezzato granoturco, anche se con la Turchia non aveva nulla a che fare. C’era un po’ di confusione geografica all’epoca, e d’altronde Colombo era approdato in America credendo di raggiungere le Indie. Il termine turco era quindi generico e si riferiva a tutto ciò che era esotico.
Popcorn in bianco e nero!
 
La coltura del mais si diffuse immediatamente e andò in parte a sostituire quella di altri cereali “poveri” come il miglio. In alcune zone d’Italia diventò praticamente l’unico cibo (per esempio nel Veneto sotto forma di polenta), con conseguenti malattie da carenza di vitamine, in particolare la pellagra. Altra testimonianza arriva da un missionario spagnolo, Bernabé Cobo, che agli inizi del 1600 scriveva: “Gli Indiani tostano un certo tipo di mais fino a che non esplode. Lo chiamano pisancalla e lo usano come una sorta di pasticcino”.
 
Gli indiani e il mais
 
Un omaggio dei pellerossa
 
Nella storia del popcorn c'è una data ufficiale: 22 febbraio 1630. Era il giorno del Ringraziamento, e l'indiano Quadequina della tribù dei Wampanoag portò in omaggio ai coloni inglesi di Plymouth, nel Massachusetts, una serie di loro prodotti tipici tra cui una busta in pelle di daino piena di popcorn.
 
"Salva i semi di grano per la vittoria"
 
I coloni apprezzarono, e cominciarono a mangiarli a colazione mescolati al latte. Altro salto nel tempo, e arriviamo alla seconda metà del 1800 quando in America divennero snack da passeggio proposti dai venditori ambulanti e nel 1893 un tal Charles Cretors mostrò al pubblico della fiera di Chicago la sua invenzione: una macchina ambulante a vapore per preparare il popcorn, in grado anche di tostare 12 chili di arachidi, 20 libbre di caffè e cuocere le castagne! Fu subito un successone e divenne popolare alle fiere, al circo e agli eventi sportivi. Intorno al 1925 arrivò la prima macchina elettrica, nel 1927 nacque la più grande società di produzione dei popcorn, a opera del reverendo Ira E. Weaver; nel 1945 venne scoperto il meccanismo del forno a microonde, utilizzato ancora oggi per far scoppiare i chicchi di mais in un paio di minuti. E finalmente nel 1951 i popcorn sbarcarono anche in Europa, anche se gli Stati Uniti rimangono i principali consumatori. Attualmente negli States "scoppiano" circa 17,5 miliardi di chicchi di mais all'anno e ogni americano ne consuma in media 67 cestelli da cinema extralarge!
 
IL MUSEO E IL FESTIVAL
 
A Marion, una cittadina dell'Ohio, c'è l'unico museo al mondo dedicato al popcorn, che conserva numerose antiche macchine perfettamente restaurate, alcune delle quali hanno più di 100 anni. Marion è anche la sede del Popcorn Festival che attrae ogni anno 250.000 persone ed è ritenuto tra i 100 più grandi eventi dell'America del Nord. Ma sono almeno sei le località degli Usa che si contendono il titolo di "capitale del popcorn": Valparaiso e Van Buren (Indiana), Ridgway (Illinois), Schaller (Iowa), North Loup (Nebraska) e naturalmente Marion. C'è anche la Giornata nazionale del popcorn, che si tiene il 19 gennaio. Infine una curiosità: oltre a essere gustato salato, con burro, zucchero, caramello e cioccolato, per le sue proprietà elastiche viene utilizzato negli imballaggi di oggetti fragili al posto del polistirolo, con il vantaggio di essere biodegradabile.
 
Il vapore che scoppia
 
Ma come fanno a scoppiare i chicchi di mais? Il chicco contiene una percentuale di acqua che sotto effetto del calore comincia a bollire, fino a trasformarsi in vapore. La pressione nel chicco aumenta fino a quando il guscio cede, e avviene lo scoppio. La parte bianca che fuoriesce è l'amido in forma di gelatina contenuto all'interno del chicco, cotto dall'acqua prima che il "corn" facesse "pop". Ungere la padella permette al calore di propagarsi più in fretta. Una spolverata di sale e i popcorn sono pronti per essere gustati, appena tiepidi e genuini!
 
Leggende metropolitane
È una leggenda metropolitana quella secondo cui il campo elettromagnetico creato da uno o più telefoni cellulari possa far scoppiare i chicchi di mais. Infatti le semplici onde elettromagnetiche non provocano l'aumento di temperatura necessario ad innescare la reazione all'interno del pericarpo.
 


#151 Guest_deleted32173_*

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Inviato 29 marzo 2017 - 05:09

Bullismo
 
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I primi studi sul bullismo furono svolti solo a partire dalla seconda metà del XX secolo si svolsero nei paesi scandinavi, a partire dagli anni settanta[3], e, poco dopo, anche nei paesi anglosassoni, in particolare in Gran Bretagna e Australia: uno degli studi pionieristici si deve alle indagini di Dan Olweus[4] a seguito di una forte reazione dell'opinione pubblica norvegese dopo il suicidio di due studenti non più in grado di tollerare le ripetute offese inflitte da alcuni loro compagni.[5]
Da allora in poi il fenomeno è stato oggetto di una crescente attenzione, soprattutto da parte della cronaca giornalistica.
 
Abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta Dott.ssa Paola Vinciguerra di parlarci del bullismo, delle cause e dei sintomi che possono rivelare agli occhi dell’altro il disagio vissuto dalla vittima dei bulli.
 
Il termine bullismo deriva dalla parola inglese bullying. Viene usato per indicare un gruppo di comportamenti in cui una determinata persona fa o dice ripetutamente cose che hanno lo scopo di offendere o aggredire un’altra persona, la vittima. Il bullismo è un fenomeno trasversale, che non tiene conto né della classe sociale, né dell’età, né del genere. Si manifesta maggiormente tramite l’uso della violenza al fine d’intimidire, sminuire o perseguitare un soggetto più debole.
Il bullismo presenta tre caratteristiche principali:
 
Sistematicità.
Asimmetria di potere.
Intenzionalità di creare un danno alla vittima.
 
Inoltre, va tenuto presente che gli atti di bullismo possono essere un fattore di rischio verso l’illegalità e la rinuncia all’istruzione.
L’ambiente familiare, inteso come contesto di apprendimento e di mediazione di norme, regole e valori, risulta particolarmente importante per quanto riguarda l’evoluzione di tale comportamento. Le vittime sono in genere timide e introverse, e i loro genitori sono molto coesi e protettivi, instaurando così un legame di stretta dipendenza. Spesso, gli episodi di bullismo si protraggono per lunghi periodi e la quantità di prepotenze fa diminuire la stima di sé della vittima.
 
Di solito si tendono a distinguere gli atti di bullismo in tre diverse forme:
 
Diretto fisico: prevalentemente maschile, si manifesta tramite aggressioni fisiche, sottrazione o distruzione di oggetti di proprietà della vittima.
Diretto verbale: sia maschile sia femminile, consiste nel deridere, insultare, prendere ripetutamente in giro la vittima.
Indiretto: prevalentemente femminile, comporta l’isolamento sociale e intenzionale, esclusione dal gruppo, diffusione di pettegolezzi fastidiosi o storie offensive nei confronti della vittima.
 
 

 



#152 Guest_deleted32173_*

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Inviato 05 aprile 2017 - 07:11

La stella
 
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La storia dell'osservazione stellare ha un'estensione vastissima, datata sin dall'origine dell'uomo. Il desiderio di conoscenza ha sempre incentivato gli studi astronomici sia per motivazioni religiose o divinatorie, sia per la previsione degli eventi; agli inizi l'astronomia coincideva con l'astrologia, rappresentando allo stesso tempo uno strumento di conoscenza e potere; solo dopo l'avvento del metodo scientifico si è giunti a una netta separazione tra queste due discipline.
Preistoria
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Archeoastronomia.
L'uomo, fin dalle sue origini, ha sentito la necessità di ricercare nella volta celeste delle possibili correlazioni tra le proprie vicende e i fenomeni cosmici. Da questa ancestrale esigenza e dalla fantasia e creatività tipiche dell'essere umano nacquero le costellazioni,[18] che rispondevano a una serie di requisiti sia di tipo pratico sia religioso.
Risalgono al Paleolitico tracce di culti religiosi attribuiti a particolari asterismi, come quello della "Grande Orsa".[19] Studi recenti sostengono che già nel Paleolitico superiore (circa 16 000 anni fa) fosse sviluppato un sistema di venticinque costellazioni.[18]
Nel Neolitico, per meglio memorizzare gli astri, vennero attribuiti agli asterismi somiglianze e nomi, non sempre antropomorfi, alludenti ad aspetti ed elementi della vita agricola e pastorale.[18]
Le prime conoscenze astronomiche dell'uomo preistorico, che riteneva le stelle dei puntini immutabili "incastonati" nella sfera celeste, consistevano essenzialmente nella previsione dei moti del Sole, della Luna e dei pianeti sullo sfondo delle stelle fisse.[20] Un esempio di questa "protoastronomia" è dato dagli orientamenti, secondo un senso astronomico, dei primi monumenti megalitici, come il famoso complesso di Stonehenge, a dimostrare l'antico legame dell'uomo col cielo, ma anche la capacità di compiere precise osservazioni.
Il moto apparente del Sole sullo sfondo delle stelle fisse e dell'orizzonte fu utilizzato per redigere calendari, impiegati per regolare le pratiche agricole.[21]
Età antica e Medioevo
Il sistema delle costellazioni fu perfezionato nel II millennio a.C. dalla civiltà babilonese, che diede gli attuali nomi - quasi tutti di origine sumerica - alle costellazioni zodiacali e creò un calendario lunare, incentrato sul susseguirsi dei fenomeni celesti che scandivano il ciclo delle stagioni.[22] Nella zona di Babilonia è stato rinvenuto un elenco con tutte le costellazioni e gli oggetti celesti visibili, che allora erano disposti nel firmamento non molto diversamente dalla loro attuale posizione. La civiltà mesopotamica aveva anche un grande interesse per l'astrologia, allora ritenuta una vera e propria scienza.[22]
La civiltà egizia aveva delle elevate conoscenze astronomiche: testimonianza ne è il ritrovamento a Dendera della più antica e accurata carta stellare, datata al 1534 a.C.[23] Anche i Fenici, popolo di navigatori, avevano buone conoscenze astronomiche. Essi si riferivano già all'Orsa Minore come mezzo di orientamento per la navigazione, e si servivano come indicatore del Nord della Stella Polare, che nel 1500 a.C. doveva essere già molto vicina al Polo Nord celeste.[18]
 
Incisione che ritrae Ipparco di Nicea
La moderna scienza astronomica deve molto all'astronomia greca e a quella romana. 48 delle 88 costellazioni moderne furono codificate e catalogate già nel II secolo d.C. dall'astronomo Claudio Tolomeo, ma ancora prima di lui astronomi del calibro di Eudosso di Cnido (V-IV secolo a.C.) e Ipparco di Nicea (II secolo a.C.) stilarono cataloghi stellari sulla base di quelli prodotti dalle civiltà precedenti da essi stessi studiate.
Lo stesso Ipparco, assistendo fortunosamente allo scoppio di una nova nella costellazione dello Scorpione, giunse a dubitare dell'immutabilità della sfera celeste. Inoltre egli, avendo notato, dopo attente osservazioni, che la posizione delle costellazioni era mutata rispetto a quanto annotato dagli astronomi precedenti, arrivò a scoprire il fenomeno della precessione degli equinozi, vale a dire il lento ma continuo cambiamento dell'orientamento dell'asse terrestre rispetto alla sfera ideale delle stelle fisse.[18]
Proprio al tempo dei Greci, all'iniziale valenza naturalistica degli asterismi venne assommata una prettamente mitologica: si devono infatti alla cultura mitologica della Grecia classica i miti e le leggende legati a gran parte delle costellazioni. I Greci assegnarono inoltre i nomi delle divinità dell'Olimpo ad alcune "stelle" particolari, da loro definite πλανῆται (planētai, vagabondi), che sembravano muoversi rispetto alle stelle fisse: si trattava dei pianeti del Sistema solare. Ne riconobbero però solo cinque, da Mercurio fino a Saturno: infatti di Urano, che appare come una debole stella ai limiti della visibilità a occhio nudo in un cielo molto scuro, nessuno registrò mai il moto orbitale; Nettuno, invece, risulta completamente invisibile a occhio nudo. A causa della loro scarsa luminosità, dovuta alla grande distanza, i due pianeti più esterni furono scoperti solo in epoca recente: il primo nel 1781, il secondo nel 1846.[6]
Ancora in età romana, le stelle prevalentemente erano considerate delle vere e proprie divinità, come attestato da Cicerone.[24] Durante l'epoca medioevale vi fu un generale periodo di stasi nelle ricerche astronomiche dovuto essenzialmente al fatto che gli astronomi cristiani preferirono accettare la cosmologia aristotelico-tolemaica, che risultava in sintonia con gli scritti biblici, rinunciando persino alle osservazioni. Si distinsero però in questo periodo gli astronomi islamici, riscopritori e grandi estimatori dell'Almagesto di Tolomeo, che diedero nomi arabi, gran parte dei quali ancora oggi usati, a un gran numero di stelle; inventarono inoltre numerosi strumenti astronomici in grado di tenere in conto la posizione degli astri. Nell'XI secolo l'astronomo Abū Rayhān al-Bīrūnī descrisse la nostra galassia, la Via Lattea, come una moltitudine di frammenti dalle proprietà tipiche delle stelle nebulose, calcolando anche la latitudine di alcune stelle durante un'eclissi lunare avvenuta nel 1019.[25]
Anche gli astronomi cinesi, come Ipparco prima di loro, erano consapevoli del fatto che la sfera celeste non fosse immutabile e vi potessero apparire delle stelle mai viste prima: essi assistettero infatti all'esplosione di diverse supernovae in epoca storica, sulle quali redassero ampie e dettagliate relazioni.[26] Una delle più importanti fu quella la cui luce, emessa circa 3000 anni prima di Cristo, raggiunse la Terra il 4 luglio 1054: si tratta di SN 1054, esplosa nella costellazione del Toro, il cui resto è la celebre Nebulosa del Granchio (catalogata secoli dopo dal francese Charles Messier come Messier 1 – M1 –).[26][27]
Sviluppi nell'età moderna
 
Ritratto di William Herschel
I primi astronomi europei dell'epoca moderna, come Tycho Brahe e il suo allievo Johannes Kepler, arrivarono a dubitare dell'immutabilità dei cieli. Essi infatti individuarono nel cielo notturno alcune stelle mai viste in precedenza, che denominarono stellae novae, ritenendo che fossero stelle di nuova formazione;[28] si trattava in realtà di supernovae, ovvero stelle massicce che concludono la propria esistenza con una catastrofica esplosione.
Nel 1584 Giordano Bruno, nel suo De l'infinito universo e mondi, ipotizzò che le stelle fossero come altri soli e che attorno a esse potessero orbitare dei pianeti, probabilmente anche simili alla Terra.[29] L'idea però non era nuova, dato che in precedenza era stata concepita da alcuni filosofi della Grecia antica, come Democrito ed Epicuro;[30] pur inizialmente bollata come eresia, l'ipotesi guadagnò credibilità nei secoli successivi e raggiunse il consenso generale della comunità astronomica.
Per spiegare come mai le stelle non esercitassero attrazioni gravitazionali sul Sistema solare, Isaac Newton ipotizzò che le stelle fossero equamente distribuite in ogni direzione. La stessa idea era stata formulata in precedenza dal teologo Richard Bentley, cui forse si ispirò lo stesso Newton.[28]
L'italiano Geminiano Montanari registrò nel 1667 delle variazioni nella luminosità della stella Algol (β Persei). Nel 1718, in Inghilterra, Edmond Halley pubblicò le prime misurazioni del moto proprio di alcune delle stelle più vicine, tra cui Arturo e Sirio, dimostrando che la loro posizione era mutata rispetto al periodo in cui erano vissuti Tolomeo e Ipparco.[31]
William Herschel, lo scopritore dei sistemi binari, fu il primo astronomo a tentare di misurare la distribuzione delle stelle nello spazio. Nel 1785 egli eseguì una serie di misure in seicento direzioni diverse, contando le stelle contenute in ciascuna porzione del campo visivo. Notò poi che la densità stellare aumentava man mano che ci si avvicinava a una determinata zona del cielo, coincidente col centro della Via Lattea, nella costellazione del Sagittario. Suo figlio John ripeté poi le misurazioni nell'emisfero meridionale, giungendo alle stesse conclusioni del padre.[32] Herschel senior disegnò poi un diagramma sulla forma della Galassia, considerando però erroneamente il Sole nei pressi del suo centro.
Astronomia stellare nell'Ottocento e nel Novecento
Il diagramma Hertzsprung-Russell (H-R) è un potente strumento teorico inventato dall'astrofisico statunitense H. N. Russell e dal danese E. Hertzsprung, che mette in relazione la luminosità (riportata in ordinata) e la temperatura superficiale (riportata in ascissa) di una stella. Entrambe sono quantità fisiche che dipendono strettamente dalle caratteristiche intrinseche della stella, che, seppur non misurabili direttamente dell'osservatore, possono essere derivate attraverso modelli fisici, il che consente agli astrofisici di determinare con una certa precisione l'età e lo stadio evolutivo di ogni astro.[33]
La prima misurazione diretta della distanza di una stella da terra fu operata nel 1838 dal tedesco Friedrich Bessel; egli, servendosi del metodo della parallasse, quantificò la distanza del sistema binario 61 Cygni, ottenendo come risultato un valore di 11,4 anni luce, tuttora accettato, seppur con maggiori affinazioni. Le misurazioni effettuate con tale metodo dimostrarono la grande distanza che intercorre tra una stella e l'altra.[29]
Joseph von Fraunhofer e Angelo Secchi furono i pionieri della spettroscopia stellare. I due astronomi, confrontando gli spettri di alcune stelle (tra cui Sirio) con quello del Sole, notarono delle differenze nello spessore e nel numero delle loro linee di assorbimento. Nel 1865 Secchi iniziò a classificare le stelle in base al proprio tipo spettrale,[34] ma lo schema classificativo attualmente utilizzato fu sviluppato nel corso del Novecento da Annie J. Cannon.
Le osservazioni dei sistemi binari crebbero di importanza durante il XIX secolo. Il già citato Bessel osservò nel 1834 delle irregolarità e delle deviazioni nel moto proprio della stella Sirio, che imputò a una compagna invisibile individuata tempo dopo nella nana bianca Sirio B. Edward Pickering scoprì la prima binaria spettroscopica nel 1899, quando osservò che le linee spettrali della stella Mizar (ζ Ursae Majoris) mostravano degli spostamenti regolari in un periodo di 104 giorni. Contemporaneamente le osservazioni dettagliate, condotte su molte stelle binarie da astronomi quali Wilhelm von Struve e Sherburne Wesley Burnham, permisero di determinare le masse delle stelle a partire dai loro parametri orbitali. La prima soluzione al problema di ricavare l'orbita di una stella binaria sulla base delle osservazioni al telescopio fu trovata da Felix Savary nel 1827.[35]
Il XX secolo vide grandi progressi nello studio scientifico delle stelle; un valido aiuto in quest'ambito fu fornito dalla fotografia. Karl Schwarzschild scoprì che il colore di una stella (e dunque la sua temperatura effettiva) potevano essere determinati confrontando la magnitudine rilevata dall'osservazione e quella dalla fotografia. Lo sviluppo della fotometria fotoelettrica consentì delle misurazioni molto precise della magnitudine in molteplici lunghezze d'onda. Nel 1921 Albert A. Michelson eseguì la prima misurazione di un diametro stellare tramite l'utilizzo di un interferometro montato sul telescopio Hooker dell'osservatorio di Monte Wilson.
Un importante lavoro dal punto di vista concettuale sulle basi fisiche delle stelle venne svolto nei primi decenni del secolo scorso, grazie anche all'invenzione nel 1913, da parte di Ejnar Hertzsprung e, indipendentemente, Henry Norris Russell, del diagramma H-R. In seguito furono sviluppati dei modelli per spiegare le dinamiche interne e l'evoluzione delle stelle, mentre i progressi conseguiti dalla fisica quantistica consentirono di spiegare con successo le particolarità degli spettri stellari; ciò ha permesso di conoscere e determinare con una certa accuratezza la composizione chimica delle atmosfere stellari.
 
Una variabile Cefeide vista da HST nella galassia M100
I progressi tecnologici dell'osservazione astronomica hanno consentito agli astronomi di osservare le singole stelle anche in altre galassie del Gruppo Locale, l'ammasso cui appartiene la nostra Via Lattea.[38][39] Recentemente è stato possibile osservare alcune stelle distinte, per lo più variabili Cefeidi,[40] anche in M100, una galassia che fa parte dell'Ammasso della Vergine, posta a circa 100 milioni di anni luce dalla Terra.Al momento non è stato possibile osservare né ammassi stellari né tanto meno singole stelle oltre il Superammasso Locale; l'unica eccezione è stata la debole immagine di un vasto superammasso stellare, contenente centinaia di migliaia di stelle, posto in una galassia distante un miliardo di anni luce dalla Terra: dieci volte la distanza dell'ammasso stellare più lontano sino a ora osservato.
A partire dai primi anni novanta sono stati scoperti, in orbita attorno a un cospicuo numero di stelle, numerosi pianeti extrasolari; il primo sistema planetario extrasolare fu scoperto nel 1992 in orbita alla pulsar PSR B1257+12 e consta di tre pianeti, più una probabile cometa. In seguito si sono registrate numerose altre scoperte che hanno portato a più di 800 il numero dei pianeti extrasolari attualmente confermati.
 
 


#153 Guest_deleted32173_*

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Inviato 12 aprile 2017 - 06:15

La patata
 
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Originaria delle Ande, la patata fu domesticata nella regione del lago Titicaca e divenne uno degli alimenti principali degli Inca, che ne svilupparono un gran numero di varietà per adattarla ai diversi ambienti delle regioni da loro abitate.
 
I primi europei a conoscere la patata furono i conquistatori spagnoli del Perù: la prima descrizione scritta della pianta risale al 1537. La patata giunse in Europa intorno alla metà del XVI secolo: è segnalata in Spagna nel 1573, un po' più tardi nei Paesi Bassi e in Italia (allora possedimenti spagnoli), in Inghilterra nel 1588 (portatavi da Walter Raleigh), in Germania alla fine del secolo; in Italia venne chiamata tartuffolo o tartufo bianco. Presente nei giardini botanici, a lungo il suo rilievo nell'agricoltura e nell'alimentazione fu marginale, e veniva considerata un cibo adatto prevalentemente agli animali. A sfavore della diffusione della patata giocavano vari fattori. Le prime varietà importate dal Sudamerica erano poco adatte alla coltivazione nei climi europei e davano raccolti scarsi. L'aspetto del tubero, deforme e irregolare, agli occhi degli europei di allora appariva strano e antiestetico, e alcuni erboristi suggerirono che potesse provocare la lebbra. La patata non era citata nella Bibbia, e secondo alcuni religiosi ciò significava che Dio non intendeva che gli uomini se ne cibassero. La patata fu perfino associata alla stregoneria e al demonio.
 
La patata si affermò soltanto a partire dalla metà del XVIII secolo, quando il rapido incremento della popolazione in Europa, con l'aumento delle necessità di cibo, rese necessaria l'adozione di coltivazioni, come la patata e il mais, che avevano un rendimento maggiore rispetto ai cereali. La patata poteva infatti fornire una quantità di calorie di 2-4 volte superiore a parità di superficie coltivata rispetto al frumento, alla segale e all'avena; inoltre aveva tempi di maturazione minori.
 
Già all'inizio del Settecento i governi di alcuni stati europei cercarono di stimolare la diffusione della patata: tra i primi vi furono quelli di Federico Guglielmo I e di Federico il Grande di Prussia. Anche scienziati e pubblicisti iniziarono a scrivere opere che ne illustravano i vantaggi e le proprietà nutritive. Ma l'impulso più forte per l'affermarsi di questa pianta venne dalla carenza di cibo causata dalle guerre e dalle frequenti carestie, in particolare dalla guerra dei Sette Anni (1756-1763) e dalla carestia del 1770-72. Oltre alla maggiore produttività, la patata, crescendo sottoterra, subiva danni minori dagli eserciti di passaggio. Così, a partire dal 1770 circa, la patata si diffuse rapidamente in Germania, Fiandre, Francia nordorientale, Inghilterra, Irlanda, poi in Scandinavia, Polonia e Russia, e nei primi decenni dell'Ottocento nell'Italia nordorientale. Un ruolo importante per la diffusione della patata in Francia spettò a Antoine-Augustin Parmentier, farmacista e agronomo che conobbe questa coltivazione mentre era prigioniero dei prussiani durante la guerra dei Sette Anni. Convinto della grande utilità e salubrità della patata, Parmentier fece grandi sforzi per diffonderne la coltivazione e l'utilizzo alimentare e culinario. In un periodo di tempo relativamente breve, la patata divenne così l'alimento fondamentale nell'alimentazione delle classi umili in gran parte dell'Europa centrale e settentrionale, soppiantando in parte i cereali.
 
In Irlanda la dieta delle classi più povere era basata esclusivamente su latte e patate, mentre il grano era utilizzato per pagare i canoni spettanti ai proprietari inglesi. La grande carestia del 1845-49 fu dovuta alla diffusione di un fungo (Phytophthora infestans) che determinò la perdita di buona parte dei raccolti nel giro di pochi anni; la popolazione irlandese diminuì drasticamente, falcidiata da fame, malattie ed emigrazione.
 
La patata era considerata un alimento di bassa qualità da destinare all'autoconsumo dei contadini e agli strati sociali inferiori, oltre che agli animali, mentre le coltivazioni di migliore qualità erano destinate alla vendita. Non mancarono resistenze da parte dei contadini, che vedevano nell'adozione della patata un impoverimento della loro alimentazione, anche per la cattiva qualità delle varietà inizialmente disponibili, e perché la patata veniva proposta, del tutto erroneamente, come adatta per la produzione di pane. Ma all'inizio dell'Ottocento ci si rese conto che la patata poteva essere utilizzata anche per preparazioni raffinate, come dimostra la sua comparsa nei libri di ricette di quel periodo
 
Classificazione
 
Patate in esposizione per la vendita
Esistono quattro tipi di patata che si trovano normalmente in commercio:
 
Patate a pasta gialla, dalla polpa compatta, derivano il loro colore dalla presenza di caroteni. Sono impiegate per le patatine fritte industriali e casalinghe, ma sono adatte anche per le insalate e le cotture in forno.
Patate a pasta bianca, dalla polpa farinosa che si spappola durante la cottura. Sono adatte ad essere schiacciate, per esempio nel purè, nelle crocchette o negli gnocchi.
Patate novelle, caratteristiche per la buccia sottile, vengono raccolte quando la maturazione non è completa. Sono a breve conservazione e andrebbero bollite con la buccia.
Patate a buccia rossa e pasta gialla, caratterizzate dalla polpa soda che le rende indicate per le cotture intense quali cartoccio, forno e frittura.
 
 


#154 Guest_deleted32173_*

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Inviato 19 aprile 2017 - 05:35

La lente
 
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L'evidenza archeologica di lenti il cui uso è riconducibile all'ottica, che cioè non sono state classificate come elementi decorativi, risale al VII secolo a.C. La lente piano convessa di Nimrud rappresenta la prima evidenza archeologica della fabbricazione di lenti. Fu scoperta a Nimrud da Austen Henry Layard nella sala del trono del palazzo di Sargon II. Il fatto che il re assiro abbia usurpato il regno a Salmanassar V nel 721 a.C. consente una datazione abbastanza precisa dell'oggetto. La lente è oggi esposta al British Museum. È in corso un disputa accademica sul suo uso: semplice lente di ingrandimento, come ritenne Layard, monocolo per la correzione della vista[1] oppure lente di un telescopio.[2] Nel 1983 nella grotta del Monte Ida a Creta sono state rinvenute due lenti di ingrandimento di buona fattura ottenute tagliando in forma piano convessa cristalli di rocca. La loro buona costruzione ne consente l'uso come lenti di ingrandimento: una di esse con diametro di 8 mm ha un ingrandimento utile di 7X. La loro datazione anche se abbastanza incerta viene situata attorno al VI secolo a.C.
 
Al Museo archeologico di Rodi è esposto un reperto proveniente da Ialiso e datato tra il VII ed il VI secolo a.C. che consiste di una serie di tre lenti realizzate in cristallo di rocca ed incastonate in cornici di bronzo dotate di una piccola protuberanza che ne consente la presa. Le lenti di diverso potere diottrico sono piano-convesse ed hanno un diametro di circa 1,5 cm. Le cornici di bronzo riportano simboli che consentono l'identificazione dell'ingrandimento della lente. Sarebbero state utilizzate per lavori di oreficeria e per l'incisione di sigilli.
 
Le prime informazioni scritte sull'uso di lenti risalgono all'antica Grecia, grazie alla commedia Le nuvole di Aristofane (424 a.C.), in cui si fa menzione della lente come strumento per concentrare i raggi solari e accendere il fuoco.
Plinio il vecchio riferisce che le lenti per accendere il fuoco erano note ai tempi dell'impero romano e ne menziona il primo uso come strumento di correzione ottica: durante i giochi, Nerone guardava i gladiatori attraverso uno smeraldo di sezione concava, presumibilmente per correggere una miopia.
 
Seneca descrive l'effetto ingrandente di un recipiente sferico di vetro pieno d'acqua. Il matematico arabo Alhazen, intorno all'anno 1000 scrisse il primo grande trattato di ottica, in cui descrive come nell'occhio umano il cristallino formi un'immagine sulla retina.
 
L'utilizzo comune delle lenti non si ha comunque fino all'invenzione degli occhiali, probabilmente avvenuta in Italia intorno al 1280.
 
Tipi di lente
Il tipo più comune è rappresentato dalle lenti sferiche, caratterizzate dall'avere le due superfici opposte costituite idealmente da porzioni di superfici sferiche con raggi di curvatura R1 e R2.
 
Il segno di R1 determina la forma della superficie: se R1 è positivo la superficie è convessa, se negativo la superficie è concava, se R1 è infinito la superficie è piatta.
 
Lo stesso vale per la superficie opposta lungo il cammino ottico, ma con i segni invertiti.
La linea passante per i centri delle sfere ideali e generalmente passante anche per il centro geometrico della lente è detta asse.
 
Tipi di lente
 
Le lenti sono classificate secondo la curvatura delle due superfici (dette diottri):
 
biconvessa o semplicemente convessa se entrambe sono convesse,
biconcava o concava se entrambe sono concave,
piano-convessa se una è piatta e l'altra convessa,
piano-concava se una è piatta l'altra è concava,
concavo-convessa se sono una concava e una convessa.
Nell'ultimo caso, se le superfici hanno uguale raggio la lente si definisce menisco, anche se il termine è anche usato per indicare una generica lente concavo-convessa.
 
Se la lente è biconvessa o piano-convessa un fascio di raggi paralleli all'asse che attraversa la lente viene "focalizzato" (cioè viene fatto convergere) su un punto dell'asse a una certa distanza oltre la lente, nota come distanza focale. Questo tipo di lente è detta positiva.
 
Lens1.svg
 
Se la lente è biconcava o piano-concava, un fascio collimato è fatto divergere e la lente è perciò detta negativa.
 
Il raggio uscente dalla lente sembra provenire da un punto dell'asse antecedente la lente. Anche questa distanza è chiamata distanza focale, ma il suo valore è negativo.
 
Lens1b.svg
 
 
Determinazione dei punti e dei piani cardinali in una lente spessa.
Nella lente concavo-convessa, la convergenza o divergenza è determinata dalla differenza di curvatura delle due superfici. Se i raggi sono uguali il fascio luminoso idealmente non converge né diverge.
 
Il valore della distanza focale può essere calcolato con l'equazione:
 
{\displaystyle {\frac {1}{f}}=\left({\frac {n}{n'}}-1\right)\left[{\frac {1}{R_{1}}}-{\frac {1}{R_{2}}}+{\frac {(n-1)d}{nR_{1}R_{2}}}\right],} {\displaystyle {\frac {1}{f}}=\left({\frac {n}{n'}}-1\right)\left[{\frac {1}{R_{1}}}-{\frac {1}{R_{2}}}+{\frac {(n-1)d}{nR_{1}R_{2}}}\right],}
dove:
 
n è l'indice di rifrazione del materiale con cui è costituita la lente,
n' è l'indice di rifrazione dell'ambiente in cui la lente è immersa,
d è la distanza tra le due superfici o spessore della lente.
Se d è piccolo rispetto a R1 e R2, si ha la condizione di lente sottile e f con buona approssimazione dato da:
 
{\displaystyle {\frac {1}{f}}=\left({\frac {n}{n'}}-1\right)\left[{\frac {1}{R_{1}}}-{\frac {1}{R_{2}}}\right].} {\displaystyle {\frac {1}{f}}=\left({\frac {n}{n'}}-1\right)\left[{\frac {1}{R_{1}}}-{\frac {1}{R_{2}}}\right].}
Il valore di f è positivo per le lenti convergenti, negativo per le divergenti e "infinito" per le lenti a menisco.
 
Il reciproco della distanza focale (1/f) è detto potere diottrico, è espresso in diottrie con dimensioni metri−1.
 
Le lenti sono reversibili, ovvero le distanze focali sono le stesse sia che la luce le attraversi in un senso sia che le attraversi nell'altro (alcune particolari proprietà come le aberrazioni non sono reversibili).
 
Formazione delle immagini
Come si è detto una lente positiva o convergente focalizza un fascio collimato parallelo all'asse in un punto focale, a distanza f dalla lente. Specularmente, una sorgente luminosa collocata nel punto focale produrrà attraverso la lente un fascio di luce collimato.
 
Questi due casi sono esempio di immagini formate dalla lente. Nel primo caso un oggetto posto a distanza infinita è focalizzato in una immagine su un piano posto alla distanza focale, chiamato piano focale. Nel secondo caso un oggetto posto nel punto focale forma una immagine all'infinito.
 
Lens3.svg
 
Date le distanze S1 tra lente e oggetto e S2 tra lente e immagine, per una lente di spessore trascurabile vale la formula:
 
{\displaystyle {\frac {1}{S_{1}}}+{\frac {1}{S_{2}}}={\frac {1}{f}}} {\displaystyle {\frac {1}{S_{1}}}+{\frac {1}{S_{2}}}={\frac {1}{f}}}
da cui deriva che se un oggetto è posto a distanza S1 sull'asse della lente positiva di focale f, su uno schermo posto a distanza S2 si formerà l'immagine dell'oggetto.
 
Questo caso, che vale per S1 > f è alla base della fotografia. L'immagine così formata è detta immagine reale.
 
Lens3b.svg
 
Si noti che se S1 < f, allora S2 diviene negativo, e l'immagine si forma apparentemente dallo stesso lato dell'oggetto rispetto alla lente. Questo tipo di immagine, detta immagine virtuale, non può essere proiettata su uno schermo, ma un osservatore vedrebbe attraverso la lente una immagine in quella posizione.
 
Una lente di ingrandimento genera questo tipo di immagine e il fattore di ingrandimento M (detto anche magnificazione) è dato da:
 
{\displaystyle M=-{\frac {S_{2}}{S_{1}}}={\frac {f}{f-S_{1}}}} {\displaystyle M=-{\frac {S_{2}}{S_{1}}}={\frac {f}{f-S_{1}}}}
se |M|>1 l'immagine è più grande dell'oggetto. Si noti che il segno negativo, come è sempre per le immagini reali, indica che l'immagine è capovolta rispetto all'oggetto. Per le immagini virtuali M è positivo e l'immagine è diritta.
Nel caso speciale in cui S1 = ∞, si ottiene S2 = f e M = −f / ∞ = 0
 
Questo corrisponde a un fascio collimato focalizzato in un punto alla distanza focale. La dimensione del punto in realtà non è nulla nemmeno per lenti perfette e prive di aberrazioni, poiché la diffrazione impone un diametro minimo del punto, che limita la risoluzione dell'immagine secondo il criterio di Rayleigh.
 
Lens4.svg
 
La formula precedente può essere applicata anche a lenti divergenti indicando la distanza focale con segno negativo, ma queste lenti possono dare solamente immagini virtuali.
 
Il centro ottico di una lente è, per definizione, il punto posto sull'asse principale in cui un raggio luminoso, attraversandolo, non subisce alcuna deviazione.
 
 


#155 Guest_deleted32173_*

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Inviato 26 aprile 2017 - 06:04

Le origini della musica
 
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Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica preistorica.
 
Trovato in Slovenia, il flauto di Divje Babe è a oggi considerato da alcuni il più antico strumento musicale conosciuto, risalente a oltre 40.000 anni fa.
 
un Mridangam, tamburo dell'India
Il problema della determinazione dell'epoca che ha visto nascere la musica è ovviamente connesso con la definizione di musica che si sceglie di adottare. Mentre, infatti, per un sistema teorico di organizzazione dei suoni, collegato a precisi riferimenti estetici, dobbiamo attendere l'antica Grecia, per la prima comparsa di singoli ingredienti, come la produzione volontaria, anche tramite strumenti, di suoni da parte dell'uomo, dobbiamo risalire al paleolitico.
 
Alcune testimonianze in questo senso possono essere dedotte da numerosi ritrovamenti in osso e in pietra interpretati come strumenti musicali. Tali sono, ad esempio, gli zufoli magdaleniani di Roc de Mercamps, o i litofoni neolitici scoperti nelle vicinanze di Dalat (Vietnam).
 
In mancanza di testimonianze dirette o mediate, qualche ipotesi sulla forma che assumeva la musica primitiva può anche essere dedotta dall'osservazione di popoli il cui stadio di sviluppo è ancora simile a quello delle culture preistoriche ad esempio gli indios brasiliani, gli australiani aborigeni, alcune popolazioni africane.
 
Si può presumere che le primissime forme di musica siano nate soprattutto dal ritmo: magari per imitare, battendo le mani o i piedi, il cuore che batte, il ritmo cadenzato dei piedi in corsa, o del galoppo; o magari alterando, per gioco e per noia, le fonazioni spontanee durante un lavoro faticoso e monotono, come per esempio il pestare il grano raccolto per farne farina, o il chinarsi per raccogliere piante e semi. Per questi motivi, e per la relativa facilità di costruzione, è molto probabile che i primi strumenti musicali siano stati strumenti a percussione, e presumibilmente qualche variante di tamburo.
 
Tra gli strumenti più antichi ritrovati vi è infatti il tamburo a fessura, un cilindro cavo, con una fessura longitudinale lungo la superficie esterna, che veniva suonato percuotendolo con le bacchette sulla fessura stessa. Le versioni più antiche e primitive ritrovate consistono in un tronco cavo, privo di fessura ma appoggiato trasversalmente sopra una buca nel terreno, che forse veniva suonato percuotendolo con i piedi.
 
Musica nell'antico Egitto
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica dell'Antico Egitto.
Tra le prime civiltà di cui si hanno testimonianze musicali c'è quella egizia, dove la musica aveva un ruolo molto importante: la leggenda vuole che sia stato il dio Thot a donarla agli uomini.
 
Tra gli strumenti utilizzati dagli Egizi, si trovano i crotali, il sistro, legato ad Hathor, la tromba, utilizzata in guerra e sacra ad Osiride, i tamburi, il liuto ed il flauto, sacro ad Amon. Altro strumento musicale assai presente e caratteristico della civiltà egizia è l'arpa arcuata, con un'ampia cassa armonica.
 
Nell'antico Egitto, la musica aveva sia funzioni religiose (veniva infatti utilizzata nelle cerimonie sacre), sia di divertimento e svago.
 
Strumenti più sofisticati dovettero attendere più a lungo. I primi ad apparire dopo le percussioni furono gli strumenti a fiato (flauto, corno) e a corde (lira e cetra), di cui esistono testimonianze greche, egizie e mesopotamiche anteriori al XI secolo a.C. Queste civiltà conoscevano già i principali intervalli fra i suoni (quinte, quarte, ottave), che erano usate come base per alcuni sistemi di scale. Da uno studio di Sachs sull'accordatura delle arpe è emerso che gli Egizi utilizzavano una scala pentafonica discendente e che conoscevano la scala eptafonica.
 
Musica nel vicino Oriente
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica della Mesopotamia.
Gli scavi del cimitero reale di Ur, città sumerica, dove furono rinvenute alcune lire e arpe, e l'iconografia musicale con cui è riccamente decorata l'architettura della prima Mesopotamia storica lasciano intendere che la musica era probabilmente molto importante nelle forme rituali tipiche della civiltà sumera. Esemplari di bassorilievo del Louvre, provenienti da Lagash, mostrano ad esempio strumenti cordofoni simili all'arpa.
 
Nei Testi Sacri dell'Ebraismo si accenna per la prima volta alla musica (in un riferimento che sembra alludere a un'epoca attorno al 3200/3300 a.C.), quando si parla di Iubal o Jubal, figlio di Lamec e di Ada, del quale viene detto che:
 
« ... fu il padre di tutti quelli che suonano la cetra (o chitarra, ebraico kinnor) e il flauto (ebraico ugab). »   (Genesi 4,21)
Fra i testi urriti trovati ad Ugarit ci sono i più antichi esempi di scrittura musicale, risalenti al 1400 a.C. circa.[4] In questi frammenti sono stati trovati i nomi di quattro compositori, Tapšiẖuni, Puẖiya(na), Urẖiya, e Ammiya.[5]
 
Musica nell'antica Grecia
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica nell'antica Grecia.
 
Donna romana che suona la cetra.
Nell'antica Grecia la musica occupava un ruolo di grande rilievo nella vita sociale e religiosa. Per i greci la musica era un'arte che comprendeva, oltre alla musica stessa, anche la poesia, la danza, la medicina e le pratiche magiche. L'importanza della musica nel mondo greco è testimoniata da numerosi miti che la riguardano. Uno è quello di Orfeo, l'inventore della musica, che riuscì a convincere gli dei dell'Ade a restituire alla luce la scomparsa sposa Euridice.
 
Durante il periodo arcaico (dalle origini al VI secolo a.C.) la musica era praticata solamente da professionisti: gli aedi e i rapsodi. Questi declamavano i miti accompagnandosi con uno strumento musicale e tramandavano la musica oralmente. In seguito nel periodo classico (dal VI secolo a.C. al IV secolo a.C.) la musica entrò a far parte del sistema educativo e così venne divulgata. A questo periodo risalgono pochissime fonti di scrittura musicale che erano soltanto di aiuto ai professionisti, perciò la musica veniva ancora tramandata oralmente. Sempre nel periodo classico si sviluppò la tragedia. I soggetti della tragedia erano presi dai miti letterari e consistevano in dialoghi tra due o tre personaggi alternati da canti corali. Gli attori erano tutti uomini, indossavano maschere e recitavano con l'accompagnamento della musica. La struttura architettonica del teatro era costituita da una gradinata a semicerchio per il pubblico, di fronte c'era il palco dove si esibivano gli attori e tra gradinata e palco c'era l'orchestra dove si trovava il coro.
 
I greci usavano diversi strumenti. I più comuni erano la lira o cetra e l'aulos. La lira era uno strumento a corde che venivano pizzicate da un plettro ed era sacra al dio Apollo. L'aulos era uno strumento a fiato ad ancia, sacro al dio Dioniso. Erano in uso anche strumenti a percussione tra cui i tamburi e i cimbali, meglio noti come piatti.
 
I greci accostarono la musica alla matematica e al movimento degli astri. Pitagora, accostando la musica al movimento dei pianeti, capì che anch'essa era governata da precise leggi matematiche. Portò la sua intuizione sul monocordo e scoprì che se una corda produceva un suono di una certa altezza, per ottenere un suono all'ottava superiore bisognava far vibrare metà della corda; per ottenere la quinta bastava far vibrare i due terzi della corda, e via di seguito.
 
Alla base del sistema musicale greco c'era il tetracordo formato da quattro suoni discendenti compresi in un intervallo di quarta giusta. I due suoni estremi erano fissi, invece i due intermedi erano mobili. I tetracordi si distinguevano in diatonico, cromatico e enarmonico. L'unione di due tetracordi formava un modo che poteva essere dorico, frigio o lidio. A seconda del tipo di unione i modi potevano essere a loro volta congiunti o disgiunti. Se ad un modo dorico disgiunto si aggiungeva un tetracordo congiunto all'acuto, un altro tetracordo congiunto al grave e sotto quest'ultimo una nota si otteneva il sistema tèleion, ovvero perfetto, dell'estensione di due ottave. Il ritmo musicale si basava su quello poetico. Nella poesia greca la metrica scaturiva dalla durata delle sillabe: brevi o lunghe, lo stesso valeva in musica. La breve equivale all'odierna croma e la lunga all'odierna semiminima. Il ritmo si aveva dall'unione di due o più note o sillabe, ordinate in schemi ritmici chiamati piedi. In poesia la combinazione di vari piedi formava il verso e la combinazione di più versi formava la strofa.
 
Alla musica i greci attribuirono una funzione educativa perché la ritenevano in grado di arricchire l'animo delle persone. Secondo Platone la musica doveva servire per arricchire l'animo umano come la ginnastica serviva per irrobustire il fisico. Questo discorso si amplia con la dottrina dell'ethos per la quale ogni modo ha un suo ethos specifico e può incidere positivamente o negativamente sull'animo delle persone. Per Platone i modi di specie dorica o frigia incidono positivamente, invece quelli di specie lidia possono turbare l'equilibrio razionale. Aristotele accettò la classificazione in ethos ma ritenne che tutti i modi potevano andare a beneficio dell'animo. Fino a questo momento la teoria musicale era conosciuta esclusivamente dal punto di vista matematico. In seguito Aristosseno di Taranto comprese l'importanza dell'udito nella percezione dei suoni.
 
Musica nell'antica Cina
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica cinese.
La musica cinese era già decisamente evoluta durante la dinastia Zhou (1122 a.C.-256 a.C.), con un ruolo importante nei cerimoniali; alla musica veniva attribuita una profonda valenza educativa e filosofica. Documenti attestanti la scrittura della musica in Cina sembrano risalire al VI - VII secolo a.C.[6]
 
La musica nella Roma antica sotto l'influsso del modello greco[modifica | modifica wikitesto]
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica nella civiltà romana.
 
Apollo sauroctonus, copia romana, Louvre
Nel periodo ellenistico si assiste ad una sostanziale crisi di quelli che sono stati i fondamenti della Musikè greca, accompagnata dalla crisi del genere tragico. Ci si imbatte in vere e proprie performance di attori che mettono in scena, dal loro bagaglio, pezzi di repertorio.
 
Il primo è segnato dalla modesta presenza, a Roma, della musica di origini etrusche o italiche, abbinata anche a spettacoli indigeni quali l'atellana e il fescennino. Risale a questa prima fase la diffusione di strumenti di metallo di impiego militare: la buccina di forma circolare, il lituus, a canneggio diritto con il padiglione ripiegato all'indietro, la tuba di bronzo a canna diritta. Il dopo fu caratterizzato dal fatto che i romani conquistarono la Grecia e portarono, in grande quantità, musicisti, intellettuali, artisti e filosofi greci a Roma. L'intero sistema culturale romano sarà condizionato da quello greco, anche dal punto di vista musicale, con delle differenze essenziali. Dal punto di vista drammatico ci saranno tragedie e commedie modellate su quelle greche, ma con la differenza che verranno chiamate diversamente: coturnae quelle greche, perché gli attori greci stavano in coturni (calzari), monodici e corali di carattere rituale erano considerati essenziali nelle solennità pubbliche quali i rioni, nelle feste religiose, nei giochi; palliate quelle romane perché i romani indossavano un abito, il pallio.
 
La musica romana ereditò dal mondo greco il sistema musicale, gli usi, le forme e la teoria. Rispetto alla semplice raffinatezza della musica greca, eseguita con pochi strumenti per accompagnare il canto, la musica dei romani fu indubbiamente più vivace e coloristica, mescolata con elementi di origine italica, ed eseguita con grandi complessi in cui doveva essere massiccia la presenza degli strumenti a fiato: la tibia, la buccina, il lituus, la tuba. Si faceva anche uso dell'organo idraulico e di numerosi (e rumorosi) strumenti a percussione. Si può pertanto desumere che la musica a Roma fosse assai popolare e che accompagnasse sempre molti spettacoli tra cui la pantomima e gli spettacoli dei gladiatori. Mentre per i greci la musica era una componente fondamentale dell'educazione, i romani ne avevano un'opinione molto inferiore, associandola a feste e divertimenti piuttosto che alla formazione del vir.
 
Il canto del cristianesimo in Occidente e la musica sacra
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Canto cristiano.
La diffusione del Cristianesimo, e quindi del canto cristiano, ha avuto un ruolo decisivo nella storia della musica occidentale. La musica corale ha origine dal canto cristiano dei primi secoli. Nelle sacre scritture si legge che il canto era una pratica comune anche nei riti della religione ebraica: lo stesso Cristo, insieme ai suoi discepoli viene ritratto come "cantore":
 
« E dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. »
(Marco, 14, 22-26)
Si può fare un parallelo tra la funzione della musica nei riti delle prime comunità cristiane e la funzione dell'arte decorativa, sintetica e stilizzata, degli inizi della vita ufficiale del cristianesimo (dopo il 313 d.C.). In entrambi i casi gli argomenti di fede sono l'argomento di espressioni artistiche non verbali che potevano essere facilmente ricordate anche da una congregazione non letterata e di umili origini.
 
Questo modo di "cantare le idee" continuerà nei secoli a contribuire alla partecipazione del fedele all'azione sacra, anche dopo che la lingua latina aveva da tempo cessato di essere comprensibile. Col tempo alla funzione ieratica (associata al salmodiare del celebrante), didascalica e partecipativa della musica si aggiunse anche una funzione decorativa tesa a solennizzare gli eventi religiosi attraverso le caratteristiche e il volume sonoro, al quale è possibile ascrivere parte del successo di uno strumento quale l'organo, la cui sonorità profonda induce nell'ascoltatore una sensazione di presagio (l'effetto degli ultrasuoni prodotti dall'organo è documentato anche da alcuni studi scientifici).
 
La monodia liturgica cristiana
Poiché la notazione musicale non emergerà che nel corso del XII secolo, il canto cristiano dei primi secoli ci è completamente ignoto, e ciò che se ne sa deriva in gran parte da supposizioni. La sua presumibile derivazione dal rito ebraico fa presumere che la liturgia dei primi secoli fosse basata sull'intonazione di forme melodiche tradizionali costruite attraverso variazioni molto piccole (di ampiezza inferiore ad un semitono e perciò dette microtoni) e in cui il ritmo era derivato dal ritmo verbale della liturgia (questo procedimento è anche detto cantillazione). Inoltre si può supporre che la condizione di clandestinità in cui la religione cristiana era praticata favorisse il sorgere di molte varianti del rito e quindi dell'accompagnamento musicale di riferimento.
 
La situazione cambiò nel 380, quando l'editto di Tessalonica impose la religione Cristiana come unica religione dell'impero. A partire dal V secolo, il cristianesimo iniziò a darsi una struttura che imponeva l'unificazione della liturgia e, quindi, anche della musica che ne faceva parte integrante.
 
Si può ipotizzare che la forma iniziale della musica liturgica fosse monodica (cioè affidata ad un solista, dalla parola greca che significa una voce sola) e basata su variazioni d'intonazione attorno ad una nota fondamentale (detta corda di recita), variazione che era dettata dalla prosodia (o enfasi) delle parole del testo sacro, nello stile musicale detto sillabico. A questo stile, che dominava la maggior parte della messa, si sovrappose col tempo un secondo stile, riservato inizialmente ai momenti di maggiore enfasi quali l'offertorio, in cui un solista intonava il testo facendo variare liberamente l'intonazione all'interno di una stessa sillaba in uno stile detto melismatico.
 
La trasmissione della musica avveniva a questo punto per tradizione orale, e attraverso scuole di canto, la cui presenza presso i maggiori centri di culto è attestata fino dal IV secolo. Oltre alla scuola di provenienza, è probabile che anche l'improvvisazione e l'abilità del singolo cantore determinassero in larga parte la musica d'uso liturgico.
 
Il canto gregoriano
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Canto gregoriano.
Agli inizi del VI secolo, esistevano in Occidente diverse aree liturgiche europee, ognuna con un proprio rito consolidato (tra i principali, ricordiamo il rito vetero-romano, il rito ambrosiano a Milano, il rito visigotico-mozarabico in Spagna, il rito celtico nelle isole britanniche, il rito gallicano in Francia, il rito aquileiese nell'Italia orientale, il rito beneventano nell'Italia meridionale). La tradizione vuole che alla fine di questo secolo, sotto il papato di Gregorio I (590-604) si sia avuta la spinta decisiva all'unificazione dei riti e della musica ad essi soggiacente.
 
In realtà si ha motivo di credere che l'unificazione avvenisse quasi due secoli più tardi, ad opera di Carlo Magno e sotto l'impulso dell'unificazione politica che portò alla nascita del Sacro Romano Impero. L'attribuzione a papa Gregorio I sarebbe stata introdotta per superare le resistenze al cambiamento dei diversi ambienti ecclesiastici, costretti a rinunciare alle proprie tradizioni.
 
Il prodotto dell'unificazione di due dei riti principali quello vetero-romano e quello gallicano fu codificato nel cosiddetto antifonario gregoriano, che conteneva tutti i canti ammessi nella liturgia unificata. Questa unificazione classificò i brani di musica sacra in uso secondo un sistema di modi, ispirati - almeno nei nomi - ai modi della tradizione greca (dorico, ipodorico, frigio, ipofrigio, lidio, ipolidio, misolidio, ipomisolidio).
 
La scrittura neumatica
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Notazione sangallese, Notazione metense e Notazione quadrata.
 
Neuma plurisonico
La riforma gregoriana sostituì lo studio dei testi alla trasmissione orale delle scuole di canto delle origini, sacrificando, oltre alle particolarità regionali (alcune delle quali, specialmente quelle di derivazione mozarabica, particolarmente ricche) e all'intonazione microtonale (che esisteva ancora nel rito vetero-romano) anche il ruolo dell'improvvisazione. Allo stesso tempo si creò la necessità di "annotare" i testi scritti in modo da aiutare i cantori ad eseguire le musiche sempre nello stesso modo, con una linea melodica che indicava la sua direzione, ascensionale o discensionale. Quest'esigenza fece nascere segni particolari (i neumi, pare nati dai gesti del direttore del coro) che, annotati tra le righe dei codici, rappresentavano l'andamento della melodia, come già detto (ma lasciando liberi intonazione e ritmo).
 
La scrittura neumatica divenne così la prima forma di "notazione" - da cui poi la "nota" musicale moderna.
 
Gli inizi della polifonia
 
Lorenzo Costa: Il concerto
La riforma gregoriana non impedì che, nel corso degli anni, le melodie monodiche di base fossero arricchite tramite amplificazioni in senso orizzontale, aggiungendo ornamentazioni alla linea melodica, e in senso verticale, aggiungendo altre voci al canto del celebrante.
 
L'amplificazione orizzontale prese la forma di interpolazione di testi e melismi nella melodia gregoriana (tropi) o di composizioni originali a partire da particolari momenti della liturgia, in genere l'Alleluja (sequenze).
 
L'amplificazione verticale, che costituiva l'inizio della polifonia (dal greco: molte voci) prese dapprima la forma di una raddoppio (diafonia) della voce monodica (vox principalis), con una seconda voce (vox organalis) ad andamento parallelo e a distanza fissa (in genere una quarta o una quinta), secondo il procedimento che fu detto organum parallelo. La vox organalis (o duplum) inizialmente posta al di sotto della vox principalis, sarebbe divenuta più acuta negli sviluppi che seguirono. Il trattato Musica Enchiriadis della metà del IX secolo, dà conto dell'organum parallelo e di alcune sue variazioni che contemplano eccezioni del moto parallelo delle voci.
 
Il discostarsi dalla regola del moto parallelo delle voci era destinato a produrre tecniche polifoniche più complesse: tale fu, attorno al 1100, la tecnica del discanto dove alle voci, che conservano sempre distanze considerate consonanti (cioè quarta, quinta, ottava e unisono), è consentito un movimento più libero, che alterna tra il moto parallelo e il moto contrario.
 
Nello stesso periodo, emerge una tecnica detta eterofonia, probabilmente derivata dal canto popolare, che consente al duplum di eseguire melismi mentre la vox principalis intona, con valori di durata assai prolungati, la melodia originale. Questa pratica è documentata in alcuni codici italiani del XII e XIII secolo (ad esempio il trattato d'organum Vaticano) e da documenti coevi provenienti dalla chiesa di San Marziale a Limoges (sud della Francia). A questo stile sarà dato il nome di organum melismatico.
 
Non furono queste le uniche alterazioni della prescrizione monodica gregoriana: nello stesso periodo e luoghi dell'organum melismatico si trovano esempio dell'uso di una voce di bordone (un'unica nota bassa che viene prolungata anche per tutta la composizione), composizioni multitestuali dette tropi simultanei in cui le voci cantano testi diversi, anticipando quello che più tardi sarà il mottetto e perfino accenni di scrittura a tre voci.
 
Bisogna infine ricordare che in Inghilterra nacque un tipo di polifonia molto diversa da quella del continente europeo, che ammetteva, enfatizzandoli, gli intervalli di terza e sesta, considerati dissonanti sul continente. Questa tendenza, espressa in composizioni a due (gymel) e tre voci (falso bordone), avrebbe in seguito influenzato la musica fiamminga e si sarebbe poi diffusa in tutta l'Europa, diventando la base della musica occidentale (che si basa sulle triadi e gli intervalli di terza).
 
Guido d'Arezzo
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica medievale.
 
Statua a Guido d'Arezzo
La scrittura neumatica lasciava molto all'immaginazione del lettore, e, proprio per questo, era inadatta alla trascrizione di composizioni di maggiore complessità, che mettevano a dura prova la memoria dei cantori.
 
Fu nell'opera di Guido d'Arezzo (992 ca.-1050 ca.) che si affermò il primo sistema di scrittura diastematica, una scrittura, cioè, che permetteva di indicare le diverse altezze delle note da intonare. Guido chiamava il suo sistema tetragramma perché inseriva dei segni (che sarebbero poi diventati le moderne note) in una griglia costituita (spesso) da quattro righe parallele.
 
Fu questo l'inizio dell'uso delle note in cui la scrittura delle durate era ottenuta proporzionalmente (la durata di una nota era indicata in proporzione alle altre). Alle note che erano posizionate negli spazi e sulle linee, Guido assegnò nomi corrispondenti alle sillabe iniziali dei primi sei versetti di un inno dedicato a San Giovanni Battista come memorandum per gli allievi:
 
La vera innovazione di Guido fu che le prime sillabe dell'Inno non servirono solo per dare un nome alle note ma, anche a darne l'intonazione relativa. In questo modo un cantore poteva intonare a prima vista un canto mai udito prima semplicemente facendo riferimento alla sillaba dell'Inno con la stessa intonazione della prima nota cui il canto iniziava per averne un'immediata idea della tonica.
 
A questo procedimento di memorizzazione Guido diede il nome di solmisazione. Negli anni che seguirono il tetragramma di Guido d'Arezzo, in origine dotato di un numero variabile di linee, si sarebbe stabilizzato su cinque linee (assumendo il nome di pentagramma) e la nota Ut avrebbe mutato il suo nome in Do ponendo le basi della notazione musicale moderna.
 
La musica popolare antica e i trovatori
 
Il trovatore Bernard de Ventadorn
Dal punto di vista della sua conservazione la musica fu doppiamente svantaggiata. Essa da una parte soffrì, fino all'invenzione del torchio a stampa, della sorte comune a tutto il materiale che doveva essere tramandato in forma scritta, cioè della rarità del materiale, dei mezzi e delle capacità di tramandarlo. A ciò si aggiunse la mancanza di una notazione che permettesse di scrivere la musica in maniera univoca (cui si giungerà compiutamente solo attorno al 1500).
 
A queste circostanze pratiche, si aggiungevano pregiudizi di carattere culturale (risalenti addirittura alla concezione Greca) che individuavano nella pratica musicale una parte nobile, collegata alla parola, e una artigianale, collegata al suono strumentale. La seconda veniva relegata in secondo piano e, nella sua funzione di servizio, lasciata ai musici professionisti (sempre di origine non nobile): questo equivale a dire che la musica popolare era affidata esclusivamente alla trasmissione orale ed è per noi completamente perduta. Le poche melodie che sono giunte fino a noi lo hanno fatto spesso intrufolandosi in composizioni considerate degne di essere tramandate (spesso in parti della messa): è questo il caso della melodia detta L'homme armé e (più tardi) della melodia detta La Follia. Solo in epoca moderna la musica popolare inizierà ad essere considerata degna di essere tramandata.
 
Si sa comunque che nel Medioevo si produceva molta musica di carattere non sacro: talvolta per celebrare i potenti (che assumevano regolarmente musicisti, soprattutto trombettisti per accompagnare le cerimonie ufficiali), per accompagnare spettacoli teatrali, sacre rappresentazioni o la recitazione di poesie o semplicemente per ballare. Pare che nel Medioevo esistesse una vera e propria passione per il ballo attestata fra l'altro dai numerosi editti che proibiscono il ballo nei cimiteri.
 
È certo che la recitazione di poesie fosse spesso (se non sempre) accompagnata dalla musica: quasi certamente gran parte delle poesie venivano infatti cantate piuttosto che recitate (questo era ad esempio il caso delle composizioni di Petrarca). Una famosa raccolta profana, i Carmina Burana, ha tramandato i soli testi dei canti dei chierici vaganti attorno al XIII secolo.
 
Un'altra importante testimonianza (profana anche se non propriamente popolare) viene dalle composizioni dei trovatori, dei trovieri e dei Minnesanger, cantori e poeti vaganti, le cui prime testimonianze datano attorno all'XI secolo. Di provenienza linguistica diversa (lingua d'oc o occitano per i trovatori, lingua d'oïl per i trovieri, tedesco per i minnesanger o menestrelli), essi erano accomunati dall'argomento delle loro canzoni, l'amor cortese e dalla loro frequentazione, appunto delle corti, dove era stata elaborata questa forma ritualizzata d'amore. La diffusione delle composizioni trobadoriche accompagnò anche la diffusione dell'idea che l'educazione musicale (rigorosamente non professionale) dovesse far parte dell'educazione di un nobile. Come per il resto delle composizioni popolari però, anche la parte musicale delle composizioni trobadoriche è andata quasi completamente perduta.
 
Ars Antiqua
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Ars antiqua.
 
La facciata occidentale di Notre-Dame
Nel 1150 si sviluppa a Parigi attorno alla Cattedrale di Notre Dame una grande scuola contrappuntistica europea, di ispirazione pitagorica, che fu detta appunto scuola di Notre Dame, o anche Ars Antiqua in contrapposizione all'Ars nova, che sarà un altro grande movimento polifonico che nascerà nel XIV secolo e in contrapposizione all'Ars Antiqua, la cui parabola terminò, con la scuola di Notre Dame, nel 1320.
 
Dal punto di vista della notazione musicale, la Scuola di Notre Dame introdusse la tecnica di indicare precisamente l'altezza delle note (che nell'opera di Guido d'Arezzo era ancora intesa in maniera relativa) in modo simile a quello che avviene nella scrittura musicale moderna, e la prima idea di divisione delle durate: ogni nota poteva essere divisa in tre note di durata inferiore.
 
Dalla scuola di Notre Dame ci vengono i nomi di magister Leoninus (Leonin) e magister Perotinus (Perotin), i primi autori di musica sacra, modernamente intesi, della storia della musica occidentale.
 
Il Trecento: l'Ars Nova
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Ars nova.
 
Guillaume de Machaut
Il XIV secolo fu il secolo in cui iniziò in tutta Europa un movimento di laicizzazione della cultura, che iniziò a distanziarsi dai condizionamenti ecclesiastici e ad acquistare una sua dimensione autonoma. Questo fenomeno si manifestò in tutti gli aspetti della produzione artistica: in letteratura si ebbe il passaggio da un'opera teologica del mondo (la Divina Commedia) alla commedia umana di Boccaccio; in pittura si passa dalle figure stilizzate alla dimensione materiale dell'uomo; in architettura, si costruiscono non solo luoghi di culto, ma anche palazzi, città ed abitazioni aristocratiche. Anche la musica acquisì una sua autonoma dimensione. L'ars antiqua si chiude nel 1320, data a cui risalgono due trattati: Ars novae musicae di Johannes de Muris e Ars nova musicae di Philippe de Vitry, che iniziarono il periodo cosiddetto dell'Ars nova.
 
Questa scuola sviluppò ulteriormente il concetto di notazione mensurale, aggiungendo altre durate a quelle usate fino ad allora, ed estendendo l'applicabilità della divisione binaria dei valori; inoltre accentuò gli aspetti musicali delle composizioni (moltiplicando le voci dei cantori ed introducendo ad esempio la forma politestuale del mottetto) rispetto agli aspetti testuali. Queste innovazioni la posero ben presto in polemica con gli esponenti dell'Ars antiqua (polemica che assunse toni così violenti da dover essere sedata da un intervento regale).
 
Il punto di vista arsnovistico infine prevalse, e i suoi insegnamenti furono alla base delle ulteriori innovazioni musicali che avrebbero avuto luogo nel secolo successivo nelle Fiandre.
 
Nell'ambito della musica popolare, gli anni trenta e quaranta videro la diffusione di un nuovo genere musicale, la chanson parigina, un canto sillabico a più voci generalmente omoritmico (le voci cantano simultaneamente note della stessa durata). Questa subì molti mutamenti ed evoluzioni; nella seconda metà del XV secolo una forma, puramente strumentale, derivata da questa, detta canzone da sonar, divenne l'antenata delle forme strumentali che saranno successivamente sviluppate nel periodo barocco.
 
Il Quattrocento
 
Guilaume Dufay
I rivolgimenti economici e sociali del XV secolo soprattutto la guerra dei cent'anni e lo sviluppo dei traffici nel nord Europa diminuirono l'importanza della Francia e diedero impulso allo sviluppo delle arti in generale e della musica in particolare nelle regioni della Fiandra e della Borgogna. La scuola che si sviluppò, finanziata nelle scuole delle cattedrali dalla borghesia benestante, prese il nome di scuola franco fiamminga e innovò grandemente le preesistenti forme della messa, del mottetto e della chanson. Ponendo le consonanze per terze (ancora oggi familiari all'orecchio occidentale) e la forma imitativa del canone alla base delle loro procedure compositive, i fiamminghi (tra cui ricordiamo il fondatore Guillaume Dufay e il grande Josquin Des Prez) rivoluzionarono la pratica della polifonia ereditata dall'Ars nova e dall'Ars antiqua. Il lavoro di questi compositori poneva le basi per lo sviluppo di quella che sarebbe stata la teoria dell'armonia.
 
La monumentale complessità cui pervennero le composizioni fiamminghe (si ricorda il mottetto "Deo Gratias" di Johannes Ockeghem, a 36 voci a parti reali - cioè senza alcun raddoppio di una o più linee melodiche, sia all'unisono che all'ottava), le regole da essi codificate e la minuta tassonomia con la quale classificarono le forme da essi frequentate (soprattutto il canone) finirono per inaridire e fare considerare artificiose le composizioni dell'ultimo periodo fiammingo: a questo punto (tra il XVI e il XVII secolo), gli insegnamenti dei fiamminghi erano stati assorbiti dagli altri musicisti europei ed erano divenuti parte integrante della polifonia.
 
La produzione musicale italiana di questo secolo non è ben documentata. Si sa che vi fu un'espansione della musica d'uso (nelle corti e in genere nelle occasioni profane) la cui parte musicale affidata come di consueto alla tradizione orale, è andata quasi interamente perduta. Di questo periodo si ricordano i canti carnascialeschi (canti di Carnevale), nati a Firenze nell'epoca di Lorenzo il Magnifico. Si tratta di canti popolareschi a più voci: una vera e propria polifonia in cui tutte le voci cioè hanno lo stesso ritmo (polifonia omoritmica).
 
Si affermarono diverse forme quasi monodiche, o comunque con polifonie omoritmiche molto più semplici di quelle fiamminghe, in cui il testo prevaleva sull'intreccio musicale. Tra queste era popolare la forma detta frottola. Da Napoli proveniva la villanella (che inizialmente si chiamò infatti villanella alla napoletana), una forma a 3 voci, inizialmente in dialetto napoletano, che diventò una forma internazionale come il madrigale. Fu una forma dal carattere fortemente popolare, caratterizzata dalla presenza di quinte parallele, quasi a sottolineare la distanza dalla tradizione colta dello stesso periodo.
 
Il Cinquecento
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica rinascimentale, Scuola veneziana e Scuola romana (musica).
 
Claudio Monteverdi
Il XVI secolo vide il verificarsi di uno degli eventi più significativi per la diffusione della musica: la nascita dell'editoria musicale. Nel 1501 a Venezia viene per la prima volta pubblicato ad opera di Ottaviano Petrucci l'Harmonice Musices Odhecaton, un intero volume di musica a stampa. Petrucci utilizzò dei caratteri mobili; uno stampatore romano, Andrea Antico, utilizzò pochi anni dopo un procedimento di tipo xilografico per ottenere lo stesso risultato.
 
Un'altra importante diramazione della chanson parigina fu in Italia il madrigale, nato ad opera del francese Philippe Verdelot e del fiammingo Jacques Arcadelt. Fu questa una forma cantata a più voci, in cui il significato del testo comunicava il carattere espressivo alla musica; in essa si cimentarono i principali musicisti dell'epoca, tanto italiani (Palestrina, Monteverdi) quanto stranieri (Orlando di Lasso, Adrian Willaert) e altri appartenenti alla sesta generazione fiamminga.
 
L'avvento della Riforma Luterana e la reazione cattolica controriformista, culminata nel Concilio di Trento (1545-1563) ebbero un profondo influsso sulla musica sacra. Nel mondo tedesco, la traduzione in tedesco dei canti liturgici e la loro messa in musica spesso su melodie profane creò la tradizione del corale protestante. Nel mondo cattolico, si creò un movimento di ritorno alle origini del gregoriano, che si distanziava dall'eccessiva complessità introdotta dalla scuola fiamminga nel secolo precedente, e proibiva ogni messa di derivazione musicale profana, richiamando i compositori al rispetto dell'intelligibilità del testo. Particolarmente sensibile a questi dettami fu il musicista italiano Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594), che come compositore o maestro di diverse cappelle romane (tra cui, per un breve periodo, anche la Cappella Sistina) lasciò un corpus di 100 messe, 375 mottetti e più di 300 altre composizioni che costituirono in pratica la rifondazione della musica sacra cattolica, stabilendo un canone stilistico che sarebbe stato per secoli a venire il riferimento per la musica liturgica.
 
Allo stesso tempo, negli ambienti umanistici si sviluppava una polemica tra i proponenti delle forme polifoniche e i proponenti delle forme monodiche, dove questi ultimi vestivano i panni degli innovatori. Fondamentale fu il circolo fiorentino della Camerata de' Bardi che verso la fine del secolo produsse ben due versioni (tra loro in concorrenza) di un dramma musicale, l'Euridice, dove veniva impiegata una tecnica nuova (detta recitar cantando) da cui nel XVII secolo il genio di Claudio Monteverdi avrebbe fatto nascere il melodramma.
 
Il trattato De Institutioni Harmonica (1558) di Gioseffo Zarlino, uno dei conservatori e difensori della polifonia nella polemica sopra accennata, definisce in modo completo ed esauriente le leggi dell'armonia (e quindi della polifonia).
 
Il Seicento e il Settecento: Il Barocco e il Classicismo[modifica | modifica wikitesto]
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica barocca e Classicismo (musica).
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Wolfgang Amadeus Mozart ritratto da Barbara Kraft.
Il periodo Barocco copre il XVII e il XVIII secolo, e in particolare va dal 1600 al 1750. Il termine Barocco deriva dal termine dispregiativo per indicare una pietra di forma irregolare, brutta; questo termine venne coniato nel secolo successivo. Le sue finalità erano quelle di meravigliare. I pezzi erano stati esclusivamente vocali fino a quel momento, anche se potevano essere trasportati per strumenti musicali. La musica strumentale si sviluppò nelle chiese a Venezia: sfruttava le possibilità acustiche della chiesa di San Marco. Si cominciò a scrivere per uno strumento musicale sfruttando le capacità dello strumento stesso: questo tipo di scrittura si chiama "musica idiomatica". Nei palazzi aristocratici si forma la figura del virtuoso; dopo poco questo arriverà anche nei palazzi vescovili perché la chiesa si accorge di dover seguire le mode del tempo.
 
La musica occidentale si sviluppò con straordinaria rapidità attraverso i secoli successivi, anche perfezionando il suo sistema tonale. La tonalità è un sistema musicale basato su scale maggiori e minori. Su ogni grado della scala si può costruire un accordo; gli accordi possono essere di posa (1°-6°), poco movimento (2°-4°), o movimento (5°-7°) e possono essere anche consonanti o dissonanti. Una pietra miliare è costituita dalle composizioni di Johann Sebastian Bach del Clavicembalo ben temperato (I libro 1722, II libro 1744, raccolta di 48 Preludi e Fughe in tutte le tonalità) che mettono in pratica il cosiddetto sistema dei "buoni temperamenti". Suite: successione di danze stilizzate fatte per essere solo ascoltate: allemanda (origine tedesca), giga (origine irlandese), corrente (origine italiana/francese), sarabanda (origine spagnola): questa successione di danze fu inventata da Froberger.
 
Sonata: brano strumentale che assomigliava al madrigale. Forma libera: le sezioni del madrigale diventano quelle della sonata: passa dall'essere un unico brano a essere formato da più tempi. Lento-veloce-L-V chiesa; V-L-V-L camera. Melodramma: nel 1570 in casa Bardi (successivamente in casa Corsi), un gruppo di artisti si riuniscono e decidono di far rivivere la tragedia greca basandosi sulla convinzione che essa fosse interamente cantata in un canto monodico accompagnato. Nel 1598 si arriva alla realizzazione della "Dafne", musicata da Peri e Corsi, della quale però ci è arrivato solo qualche frammento. Nel 1600 viene composta, da Peri e Caccini, per il matrimonio di Maria de' Medici e Enrico IV di Francia, l'"Euridice", con testi di Rinuccini. Nello stesso anno l'opera di Emilio de' Cavalieri "Rappresentatione di anima et corpo" che ha la stessa struttura di un melodramma ma non è definibile come tale dato che i melodrammi devono essere di argomento profano e questo non lo era. L'Euridice viene notata dal duca Gonzaga di Mantova che commissiona un melodramma al suo musicista Monteverdi, che compone nel 1607 l'"Orfeo". I primi melodrammi vengono eseguiti in "recitar cantando" (un canto monodico accompagnato): da lì nascono il recitativo e l'aria. Gli argomenti dei primi melodrammi sono di argomento mitologico per giustificare l'inverosimiglianza del dialogo cantato. Viene molto utilizzato il mito di Orfeo e Euridice perché si esprime la magia e la bellezza del canto di Orfeo capace di muovere gli affetti. Il finale veniva spesso cambiato perché i melodrammi dovevano avere un lieto fine, cosa che non caratterizzava questo mito.
 
Si istituirono delle scuole per musicisti, associazioni laiche. In Italia nascono i primi conservatori che in realtà sono orfanotrofi (a Venezia venivano chiamati ospedali). Agli orfani veniva fatta studiare la musica. In Italia Antonio Vivaldi operò molto negli orfanotrofi, come insegnante e direttore di orchestra. Vivaldi era un prete dispensato dai voti. Scrisse molte opere che Ryom provò a catalogare: Vivaldi scrisse 478 concerti dei quali più di 300 sono solistici, ai quali dà dei titoli (come le 4 stagioni, il cardellino, la tempesta di mare, la caccia) dopo averli composti, per questo la sua musica non si può definire a programma. Scrisse anche molte sonate e sinfonie, e 3 oratori. Di professione faceva anche l'impresario teatrale. Un commento negativo sul suo conto fu dato successivamente da Stravinski che sosteneva che la musica di Vivaldi fosse tutta uguale. Alla fine del Cinquecento un prete fiorentino (S. Filippo Neri) crea piccole assemblee dove i fedeli possono pregare e discutere insieme di argomenti religiosi. Queste assemblee ebbero molto successo. Vennero emulati ovunque. Durante queste assemblee i partecipanti discutevano e pregavano cantando delle Laudi polifoniche. Con la morte di S. Filippo Neri, l'utenza diventò di un ceto sociale più alto. Si cominciano a cantare i Madrigali, e piano piano si trasformano in oratori. Le principali differenze tra melodramma e oratorio sono: oratorio - no azione scenica, sacralità, fondamentalità del coro, presenza del narratore (historicus); melodramma - sì azione scenica, argomento profano, no coro, no narratore. Mentre fino al XVI secolo prevalevano gli strumenti a fiato perché erano i più idonei ad eseguire la musica polifonica nel ‘600 prevalsero gli archi anche perché con questo tipo di strumento puoi produrre più effetti e dinamiche. Fino a quel momento non esisteva il concetto di pubblico dato che le opere venivano eseguite solo nelle corti. Nel 1637 con l'apertura del primo teatro pubblico a Venezia, la popolazione sarà quella che paga e comincerà a condizionare le scelte musicali. Durante la prima metà del Seicento nella scuola veneziana, Girolamo Frescobaldi scrisse per organo e clavicembalo, una musica polifonica dove inserisce il virtuosismo, dando anche indicazioni all'esecutore. Le forme dei brani che scrive sono: canzona, ricercare, toccata e capriccio. Accanto a quelle di Bach, sono di fondamentale importanza le composizioni del tedesco Georg Philipp Telemann, che esce dagli schemi della scuola tedesca di quel tempo. Vi è inoltre la grande presenza di Wolfgang Amadeus Mozart. Senza dubbio è uno, tra i grandi, e sono tanti; e grazie a lui l'evoluzione della musica può poggiare su un grande pilastro creato, che si estende in tutti i campi, sinfonia, opera, musica da camera, serenate, e che è il legame, possiamo dire, tra la musica del settecento (le sinfonie calme e serene, che rispecchiano alla perfezione gli schemi musicali, di Haydn) e quella romantica del XIX secolo.
 
L'Ottocento
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica romantica, Musica tardo-romantica e Storia della sinfonia.
Nel secolo d'oro della musica classica occidentale, gli anni che vanno dal 1750 al 1850, essa si esprime in forme sempre più ricche ed elaborate, sia in campo strumentale (uno straordinario sviluppo ebbe la forma della sinfonia) che in campo operistico, sfruttando sempre più estesamente le possibilità espressive fornite dal sistema armonico e tonale costruito nei secoli passati.
 
All'inizio del secolo giganteggia la figura di Ludwig van Beethoven (1770-1827), che prese le mosse dall'eredità di Mozart e dei compositori classici coevi per arrivare a trasfigurare le forme musicali canoniche, soprattutto la sinfonia e la sonata, creando al contempo il concetto di musica assoluta, cioè svincolata dalle funzioni sociali cui era stata fino ad allora subordinata. Con Beethoven si assiste alla nascita della figura del compositore/artista, contrapposta a quella, in precedenza prevalente, del musicista/artigiano. Le nove sinfonie di Beethoven ebbero tale risonanza da promuovere la forma della sinfonia come la regina tra le forme musicali, al punto che molti dei musicisti che vennero dopo di lui temevano di misurarsi con essa. Ciò nonostante, compositori come Johannes Brahms, Anton Bruckner e Gustav Mahler l'affrontarono con risultati così notevoli da far parlare di "Stagione del grande sinfonismo tedesco".
 
In Beethoven si trovano le prime manifestazioni del romanticismo musicale, molti protagonisti del quale furono di area germanica e austriaca, come Schubert, Mendelssohn e soprattutto Robert Schumann. A Parigi operano invece Berlioz, Alkan e il polacco Chopin. Emerge in questo periodo anche la figura del musicista virtuoso, che ha in Franz Liszt e Niccolò Paganini i due esempi più famosi e celebrati.
 
L'Ottocento è anche il secolo della grande stagione operistica italiana, che ha come protagonisti Gioachino Rossini (1792-1868), Vincenzo Bellini (1801-1835), Gaetano Donizetti (1797-1848), Giuseppe Verdi (1813-1901) e, a cavallo del secolo seguente, Giacomo Puccini (1858-1924). La tradizione operistica italiana continua ad esaltare il ruolo del canto che, sciolto dall'eloquenza dell'opera settecentesca diviene momento lirico, pura espressione dell'anima. Nel corso del secolo tuttavia essa assorbe progressivamente aspetti dell'opera francese, da sempre attenta all'aspetto visivo e a partire dalla seconda metà del secolo legata all'estetica del naturalismo. Quanto all'orchestra, da semplice accompagnamento del canto si evolve fino a diventare, nelle opere di Puccini, un'orchestra sinfonica.
 
Alla fine del secolo la ricerca di nuove forme e di nuove sonorità porta alla crisi del sistema tonale, espressa nel famoso preludio del Tristano e Isotta di Richard Wagner del 1865, che contiene passaggi armonicamente enigmatici, non interpretabili alla luce delle regole in vigore in quegli anni.
 
Il Novecento
Nel XX secolo, parallelamente al versante colto, che in realtà si estende molto al di là dei confini tracciati dalla musica seriale, assunsero grande importanza i generi musicali popolari, cui i mezzi di comunicazione di massa consentirono una diffusione senza precedenti.
 
La musica colta
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica moderna, Musica contemporanea e Musica postmoderna.
Dopo la crisi del sistema tonale, a cavallo tra Ottocento e Novecento si avvia una frenetica ricerca di nuovi codici linguistici su cui basare la composizione musicale. Le soluzioni proposte sono diverse: dal ritorno alla modalità, all'adozione di nuove scale, di derivazione extraeuropea, come quella per toni interi (proposta per primo da Claude Debussy), al cromatismo atonale e poi dodecafonico che tende a scardinare la tradizionale dualità di consonanza/dissonanza.
 
In particolare, nel secondo decennio Arnold Schönberg, assieme ai suoi allievi, tra cui si ricordano Alban Berg e Anton Webern, giunge a delineare un nuovo sistema, noto come "dodecafonia", basato su serie di 12 note. Alcuni ritennero questo l'inizio della musica contemporanea, spesso identificata con la musica d'avanguardia: altri dissentirono vivamente, cercando altre strade. Il concetto di serie, inizialmente legato ai soli intervalli musicali, si svilupperà nel corso del secondo Novecento sino a coinvolgere tutti i parametri del suono. È questa la fase del serialismo, il cui vertice fu raggiunto negli anni cinquanta con musicisti come Pierre Boulez e John Cage.
 
Altri musicisti - tra cui Igor Stravinsky, Bela Bartok e Maurice Ravel - scelsero di cercare nuova ispirazione nelle tradizioni folkloristiche e nella musica extraeuropea, mantenendo un legame con il sistema tonale, ma innovandone profondamente l'organizzazione e sperimentando nuove scale, ritmi e timbri.
 
La musica da film
Con l'avvento della cultura cinematografica, inizia anche la diffusione della "musica da film" (o colonna sonora) che riprende la funzione di "commento musicale" delle scene, come accade per il teatro. Tra i compositori più celebri del XX e XXI secolo vi sono Ennio Morricone , John Williams, Alfred Newman, Bernard Herrmann, Henry Mancini, Danny Elfman, Thomas Newman, John Powell, Hans Zimmer e David Newman. Per questo genere di musica non ci sono dei canoni o metodi musicali precisi che lo contraddistinguono dagli altri, dato che ogni compositore ha un suo stile personale e può avere influenze diverse da qualsiasi altro genere: dalla musica classica, dal jazz o dal rock e così via. Con la nascita dei videogiochi, le colonne sonore hanno trovato un altro campo di applicazione, conosciuto per tali opere come "background music".
 
La musica pop
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica pop.
 
Presley in un'immagine degli anni settanta
All'inizio del XX secolo la musica occidentale è dunque ormai profondamente cambiata, e scossa fin dalle fondamenta. Non solo, ma cambiano anche, grazie alle invenzioni relativamente recenti della radio e del fonografo, i modi e i tempi di ascolto della musica stessa, prima limitati a concerti in locali appositamente adibiti, come teatri, locali, club o case private. Da una parte inizia a crearsi un pubblico potenziale più vasto e meno acculturato, che apprezza strutture melodiche e armoniche più semplici, dall'altra mai come in questo periodo storico è stato facile, per chi volesse suonare, procurarsi uno strumento e imparare a usarlo.
 
A questo si deve aggiungere una seconda rivoluzione, anche questa tecnologica: l'invenzione dell'altoparlante e dell'amplificazione audio, che permette di far suonare assieme strumenti che non potrebbero farlo altrimenti (come per esempio una chitarra, una batteria di tamburi e un pianoforte), perché il suono di alcuni di essi prevaricherebbe completamente gli altri.
 
Queste nuove possibilità tecniche crearono l'occasione per nuovi veicoli espressivi che la musica colta tardò a cogliere e che la nuova musica popolare non ebbe alcun problema ad adottare, creando, tra il 1920 fino al 1980 e in misura minore negli anni successivi, una grande fioritura di nuovi stili e generi (quali jazz, blues, rock, soul, pop, funky, metal, fusion, ognuno dei quali si è suddiviso in ulteriori sottogeneri). Nascono così personaggi che diventano autentici fenomeni mediatici raggiungendo una popolarità senza precedenti. Gli stessi fattori, assieme alle mutate condizioni sociali ed economiche del mondo occidentale, fanno assumere estrema rilevanza agli aspetti commerciali del fenomeno musicale (aspetti che avevano iniziato ad emergere già nel secolo precedente): nel XX secolo la richiesta popolare di musica fa nascere, in occidente e nel resto del mondo, una vera e propria industria musicale di dimensioni e risorse gigantesche.
 
Il jazz, il ragtime ed il blues
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Jazz e Blues.
 
Louis Armstrong negli anni trenta
All'inizio del Novecento, negli Stati Uniti d'America, iniziano a diffondersi tra la popolazione urbana diversi generi musicali derivati dalle tradizioni popolari degli africani portati come schiavi sul continente, e dalle loro contaminazioni con le tradizioni musicali bianche.
 
Nascono e acquistano notorietà in questo modo il ragtime, il blues urbano (derivato dal cosiddetto blues primitivo che veniva cantato nelle campagne), e da ultimo, il jazz, che combinava la musica bandistica e da parata, che veniva suonata soprattutto a New Orleans, con forti dosi d'improvvisazione e con particolari caratteristiche ritmiche e stilistiche.
 
L'invenzione del fonografo, prima, e della radio, poi, permise una diffusione senza precedenti di questi nuovi generi musicali, che erano spesso interpretati da musicisti autodidatti molto più legati ad una tradizione musicale orale che non alla letteratura musicale. Questo fatto, le origini non europee degli interpreti, e il citato ricorso all'improvvisazione, contribuirono a creare musiche di grande freschezza e vitalità. Al contrario di quello che era successo tante volte nella storia della musica, la tecnologia offriva ora ad una musica popolare fondata più sulla pratica che sulla scrittura di essere trasmessa e tramandata, piuttosto che dimenticata.
 
La musica jazz continuò a svilupparsi per tutto il XX secolo, diventando prima musica di larghissimo consumo durante gli anni venti e gli anni 30 (detti anche gli anni dello swing), intrecciandosi con altri generi per dare vita a forme di espressione musicale ancora diverse (la più commercialmente rilevante delle quali fu il rock) ed evolvendosi poi gradatamente in una "musica per musicisti" e per appassionati (quando non per élite) espandendosi fuori dall'America e trovando seguaci prima in Europa (dove fu spesso apprezzata più che nel suo luogo di nascita) e poi in tutto il mondo, e diventando uno dei contributi musicali più importanti del Nuovo Continente.
 
La musica elettronica
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Musica elettronica.
In seguito all'invenzione delle primissime apparecchiature tecnologiche avvenute lungo il Novecento, vennero fondati, a partire dalla seconda metà degli anni quaranta, i primi studi di registrazione dedicati alla musica elettronica.[7] I musicisti che vi operavano erano tutti autori di composizioni d'avanguardia atonali e concettualmente legate alla musica contemporanea. Fra essi, i più importanti includono John Cage, Pierre Henry, e Karlheinz Stockhausen. A partire dagli anni sessanta, l'aumento della produzione di apparecchiature elettroniche, e la conseguente "popolarizzazione" di esse, permise alle sonorità prodotte dalle nuove tecnologie di influire su un numero sempre crescente di stili di musica popolare. Fra essi vanno segnalati almeno il krautrock, stile sperimentale emerso in Germania lungo la prima metà degli anni settanta[8] e comprendente fra i suoi esponenti gli influentissimi Kraftwerk,[9] il synth pop, uno dei primi stili melodici suonati con tecnologie elettroniche, la musica house, e la techno.
 
Il rock
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Rock e Rock and roll.
Il rock è la dizione abbreviata di "rock and roll" o "rock'n'roll", e da quando si affermò questa espressione abbreviata si svilupparono vari sottogeneri che enfatizzavano gli aspetti più aggressivi del rock'n'roll. La parola rock si iniziò a leggere come "roccia", e in espressioni come Hard Rock cioè "roccia dura". Il rock'n'roll nacque negli anni cinquanta come musica da ballare, derivato dal boogie-woogie, ballo afro-americano del dopo guerra, infatti, sta proprio per "ondeggia e ruota". Quando rock e rock'n'roll si differenziarono, cioè da quando appunto non furono più sinonimi, la seconda espressione venne intesa come forma originaria di questo genere di musica. Storicamente un gruppo, o una band è formata da una voce, una o più chitarre, il basso e la batteria, spesso con l'inserimento di pianoforte o sassofono. Negli anni settanta, soprattutto nel Regno Unito, si affacciarono personaggi come i Pink Floyd, Arthur Brown e Soft Machine pronti a spaziare e a raggiungere nuove melodie musicalmente più complesse rispetto a quelle del rock primitivo per iniziare a dare vita a una rivoluzione. In questa rivoluzione fu coinvolta anche la tecnologia, che con il sintetizzatore, il moog, il mellotron iniziarono a dare vita a forme compositive sempre più complesse e a sonorità completamente innovative. Lo sviluppo del rock ha portato alla creazione di sottogeneri anche molto diversi tra di loro, che spaziano dalla ricerca virtuosistica e alla complessità compositiva del progressive, al diretto minimalismo del punk, passando per l'Heavy metal, caratterizzato da ritmi aggressivi, e tematiche che spaziano dalla violenza anarchica alla lotta per la libertà, dai racconti storico-tragici al fantasy, dalla futilità della guerra alla condanna degli orrori del genere umano. Questi sottogeneri spesso svolgono un ruolo importante nella ricerca giovanile di una propria identità, finendo dunque col legarsi a sottoculture preesistenti o col crearle.
 


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Inviato 03 maggio 2017 - 06:38

Il microonde
 
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La possibilità di cuocere i cibi con le microonde fu scoperta per caso negli Stati uniti da Percy Spencer, dipendente della Raytheon, mentre realizzava magnetron per apparati radar. Un giorno, mentre lavorava su un radar acceso, si accorse che una tavoletta di cioccolato che aveva in tasca si era sciolta.
 
Detentore di 120 brevetti, Spencer intuì immediatamente cosa era accaduto. Il primo cibo che provò intenzionalmente a cuocere fu il pop corn; in seguito provò con un uovo, che però esplose finendo in faccia a uno degli sperimentatori.
 
Nel 1946 la Raytheon brevettò il processo di cottura a microonde e nel 1947 realizzò il primo apparato destinato alla commercializzazione, chiamato Radarange. Era alto 1,8 m, pesava 340 kg, aveva un sistema di raffreddamento ad acqua e produceva una potenza in radioonde di 3 kW, che è da 2 a 4 volte la potenza dei forni domestici attuali. Il successo fu notevole e per espandere il mercato la Raytheon acquistò la Amana, produttrice di elettrodomestici dell'Iowa.
 
Negli anni sessanta la holding Litton Industries acquistò da Studebaker gli stabilimenti Franklin Manufacturing per la produzione di magnetron e forni a microonde simili al Radarange.
 
La Litton sviluppò quindi la configurazione ancora comune nei moderni forni domestici, anche se il nome fu noto soprattutto nell'ambito della ristorazione professionale. L'alimentazione del magnetron fu modificata in modo che questo potesse resistere indefinitamente a un funzionamento senza carico. Il nuovo prodotto fu esposto in una fiera commerciale a Chicago, evento che aprì la strada alla sua grande diffusione in tutte le cucine domestiche (soprattutto negli Stati Uniti).
 
In seguito, diverse altre aziende entrarono sul mercato: per diverso tempo si trattava di appaltatori del Dipartimento della Difesa, che avevano sviluppato esperienza con i magnetron.
 
Negli anni settanta la tecnologia si era evoluta a sufficienza e i prezzi iniziarono a scendere rapidamente. Le microonde, che prima erano relegate ad applicazioni industriali, si diffusero nelle cucine, favorite anche dal crollo dei prezzi dei microprocessori che, incorporati in tutti i forni a microonde, ne semplificavano l'utilizzo.
 
Si stima che circa il 95% delle famiglie statunitensi abbia un forno a microonde[in quali anni?].
 
In Italia il forno a microonde inizia a diffondersi piuttosto tardi, anche per via di vari pregiudizi contro questa tecnologia. I forni a microonde in Italia iniziano a essere pubblicizzati negli anni ottanta. Tuttavia, è agli inizi degli anni duemila che il forno a microonde ha conosciuto in Italia una diffusione di massa e ha iniziato a essere considerato un apparecchio che non serve solamente a scaldare o scongelare i cibi, ma può essere usato anche per la cottura.
 
Tale larga diffusione è stata molto agevolata dall'abbattimento dei costi per i modelli più semplici, dalle varie migliorie e funzioni aggiunte nel tempo ai modelli più evoluti, e dal diminuire dei pregiudizi su questa tecnologia (anche grazie a pubblicazioni e trasmissioni televisive).
 
Descrizione e funzionamento
 
Un magnetron
Un comune forno a microonde consiste delle parti seguenti:
 
un magnetron,
un circuito elettronico di controllo e alimentazione del magnetron,
una guida d'onda,
una camera (o tecnicamente cavità) di cottura.
una rete metallica (sullo sportello)
Il magnetron, alimentato in corrente continua ad alta tensione (2 000 V), genera un campo elettrico alternato nella frequenza delle microonde, normalmente 2,45 GHz (lunghezza d'onda di 12 cm) con una potenza solitamente compresa tra 100 W ed 1 kW, che la guida d'onda invia alla camera di cottura. L'acqua, i grassi, e i carboidrati che costituiscono il cibo assorbono l'energia delle microonde in un processo chiamato riscaldamento dielettrico: le molecole sono in generale dipoli elettrici, ovvero hanno una estremità con carica elettrica positiva e un'altra con carica negativa; sono per questo sensibili al campo elettrico (alternato), che, cambiando continuamente il suo verso, induce le molecole a modificare ripetutamente la loro orientazione in base alla frequenza del campo. Questo movimento genera calore attraverso forze di attrito con le molecole vicine e si ha quindi un riscaldamento.
 
A volte il riscaldamento viene spiegato erroneamente con la risonanza delle molecole d'acqua alla frequenza delle microonde. La frequenza di risonanza dell'acqua è molto più alta, dell'ordine dei THz,[1] e si riferisce ai moti di vibrazione molecolari, mentre le microonde eccitano i moti di rotazione.
 
Le microonde riscaldano con più efficienza l'acqua, ma in misura minore anche grassi, zuccheri e ghiaccio.
 
La camera di cottura è sostanzialmente una gabbia di Faraday che impedisce la fuoriuscita di microonde.
 
Il portello del forno è di vetro per permettere la visione della pietanza all'interno, ma è provvisto di uno strato di rete metallica fine come schermo elettromagnetico. Poiché la larghezza delle maglie, dell'ordine dei millimetri, è di molto inferiore alla lunghezza d'onda delle microonde (quest'ultima di circa 12 cm per le frequenze di solito utilizzate), la radiazione non può attraversare la rete a differenza della luce, la cui lunghezza d'onda è molto più piccola delle maglie. Il meccanismo di chiusura del portello prevede appositi interruttori che spengono istantaneamente il magnetron in caso di apertura a forno acceso, evitando la fuoriuscita di microonde.
 
 
Forno a microonde aperto: si vede il trasformatore in basso e il magnetron (coperto da una calotta metallica di schermo) immediatamente sopra
Il magnetron deve essere alimentato con un tensione in corrente continua di diverse migliaia di volt. Questa tensione viene prodotta a partire dalla tensione della rete elettrica per mezzo di un trasformatore seguito da un raddrizzatore e da un condensatore. Un relè o un triac accendono e spengono il sistema su comando del microprocessore che gestisce i tempi di funzionamento in base ai parametri impostati con i comandi presenti sul pannello anteriore.
 
Sebbene i forni prevedano la regolazione della potenza di cottura, il magnetron viene fatto funzionare sempre a pieno regime per mantenere al massimo l'efficienza. La modulazione della potenza viene ottenuta in modo diverso, regolando il rapporto tra il periodo di accensione e il periodo di spegnimento, secondo una tecnica chiamata modulazione di larghezza di impulso. Per ottenere, ad esempio, una potenza pari alla metà di quella massima si accende il magnetron per pochi secondi spegnendolo poi per un tempo identico e così via fino al termine del tempo prefissato di cottura.
 
Considerando costante l'energia irradiata dal magnetron, vi è un rapporto di proporzionalità diretta fra la massa da riscaldare e il tempo necessario; questo vuol dire che, a parità di energia usata, se si raddoppia la quantità di cibo inserita nel forno si impiegherà il doppio del tempo per ottenere il riscaldamento voluto, oppure che, a parità di energia e di tempo, il doppio del cibo si scalderà la metà.
 
 
 


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Inviato 09 maggio 2017 - 07:37

Dizionario
 
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Le origini della tradizione lessicografica risalgono all'antichità. In particolare, gli archeologi italiani hanno ritrovato, a partire dal 1964, in Siria, nella città di Ebla, 15.000 tavolette d'argilla, fittamente ricoperte di caratteri cuneiformi, tra le quali è stato individuato il più antico dizionario del mondo. Di qualche secolo successivo è lo Hurra=Qubullu, il maggior glossario sumero-accadico, usato a Babilonia. Risalgono al secondo millennio a.C. frammenti di un dizionario bilingue che traduceva parole egiziane in accadico, antica lingua semitica parlata nella Mesopotamia meridionale.
 
I più antichi dizionari consistono dunque in elenchi di parole comuni, tradotte in una seconda o terza lingua. L'esigenza pratica di tradurre in una lingua diversa dalla propria è all'origine delle prime compilazioni lessicografiche: gli intensi scambi commerciali e culturali che si svolgevano nel Vicino Oriente rendevano necessarie compilazioni nelle quali accanto ad un termine accadico veniva segnalata la corrispondente forma sumerica. Nel primo millennio a.C. ebbe inizio la tradizione dei dizionari monolingue, originariamente legata alla necessità di commentare e spiegare i testi antichi e sacri: in Egitto, India, Cina, Grecia e poi a Roma, in margine ai testi venivano annotate le spiegazioni delle forme difficili o rare. Esempio ne è lo Erya, glossario cinese del III secolo a.C..
 
In particolare, in Grecia, a partire dal V secolo a.C., nacque la necessità di corredare i poemi omerici di note di chiarimento, dette glosse, necessarie per interpretare correttamente i passi meno comprensibili dell'Iliade e dell'Odissea. L'abitudine a glossare, a spiegare e chiarire i punti oscuri dei testi si trasformò in seguito, nell'età alessandrina, nella consuetudine di compilare elenchi di termini non comuni seguiti da spiegazioni, o dal sinonimo corrispondente. I maggiori autori di lessici greci furono Fileta di Coo, Zenodoto, Aristofane di Bisanzio, Cratete di Mallo, Apollonio sofista, Eliodoro, Elio Erodiano, Callimaco.
 
Volendo citare le principali opere lessicografiche del mondo antico, bisogna citare per il latino il De Significatu verborum di Verrio Flacco (I secolo d.C.) e per il greco la Synagogé ("Raccolta") di Esichio di Alessandria.
 
Bisogna infine ricordare la Suda, la maggiore opera lessicografica bizantina.
 
Glossari e dizionari medievali
 
Una pagina del De rerum naturis di Rabano Mauro
Il Medioevo è dominato dall'opera monumentale, in venti libri, realizzata nel VII secolo da Isidoro di Siviglia (570-636). Negli Etymologiarum sive Originum libri viginti, Isidoro consegnò ai posteri una summa di tutto il sapere dell'antichità, con un'attenzione particolare alle etimologie, talvolta corrette, talvolta fantasiose, in un tentativo costante d'arrivare alla conoscenza attraverso la spiegazione dell'origine e del significato delle parole. La raccolta d'Isidoro presente in ogni monastero e diffusa attraverso copie manoscritte, ha influenzato tutti i glossatori e i lessicografi medievali e rinascimentali.
 
Altra opera di carattere enciclopedico, in ventidue libri, è il De Rerum naturis o De Universo di Rabano Mauro, arcivescovo di Magonza (784-848), nella quale le voci latine erano tradotte in tedesco o spiegate con altre parole latine.
 
Gli etymologica, cioè i repertori d'etimologie che elencavano parole e cose in ordine sistematico, ebbero grande fortuna nel Medioevo. Invece, la consuetudine a concepire veri e propri glossari si trasformerà, col passar del tempo, in elenchi di parole non più concepiti solo come aiuto alla lettura e alla comprensione di testi, ma come strumento pratico per chi doveva scrivere in latino, quando questa lingua non era più parlata.
 
Fa eccezione il Glossario di Monza, risalente al X secolo, destinato a chi, dovendo viaggiare in Oriente, aveva la necessità di conoscere parole e frasi della lingua greca: consiste in una lista di sessantacinque voci italiane provenienti dall'area lombarda, indicanti nomi comuni (parti del corpo, indumenti, animali domestici, giorni della settimana), affiancate alle voci corrispondenti greche e bizantine.
 
Volendo citare i glossari più rappresentativi, andrà ricordato il Vocabulista del grammatico lombardo Papias, che intorno al 1041 compilò un elenco in ordine alfabetico comprendente voci latine seguite da glosse di spiegazione, da definizioni, e da etimologie, fra le quali compaiono talvolta volgarismi, parole proprie della lingua volgare. Famoso e diffuso nel Medioevo fu anche il Liber derivationum o Magnae derivationes di Uguccione da Pisa (1150-1210), che raccolse centinaia di parole rare mescolate a volgarismi.
 
Dall'Italia Settentrionale provengono: il Catholicon, un'enciclopedia di problemi grammaticali e sintattici, comprendente una raccolta in ordine alfabetico di voci latine e volgari di Giovanni Balbi; e il Vocabulista ecclesiastico del savonese di Giovanni Bernardo, consistente in un elenco in ordine alfabetico di voci latine seguite da brevi definizioni in volgare. L'attività lessicografica in Sicilia è testimoniata dal Liber declari o Declarus, dizionario latino corredato di spiegazioni in volgare siciliano, del benedettino Angelo Senisio abate di San Martino delle Scale (Palermo), scritto probabilmente dopo il 1352.
 
Queste opere si fondavano sulla tecnica dell'expositio – della glossa sinonimico-esplicativa – o della derivatio – basata sul raggruppamento dei termini legati da una comune base etimologica, con l'aggiunta di definizioni rudimentali, etimologie, indicazioni grammaticali, volgarismi. Accanto a tali opere vanno considerati i numerosi glossari latino-volgari redatti tra la fine del XIV e il XV secolo, opere nelle quali venivano registrate soprattutto voci comuni, mettendo a confronto le voci latine con le corrispondenti varianti locali. Fra questi bisogna citare il glossario latino-volgare di Goro d'Arezzo, composto intorno alla metà del secolo XIV; e il Vocabolarium breve latino-veneto del bergamasco Gasparino Barzizza, databile tra la fine del secolo XIV e i primi decenni del XV, i cui vocaboli erano registrati secondo una progressione gerarchica che partiva da Dio e arrivava, dopo le voci riguardanti le parti del mondo e le attività umane, all'uomo e al suo corpo.
 
Raccolte d'altro genere, compilati con intenti pratici, mettevano a confronto lingue diverse: come esempio si può citare il dizionario veneziano-tedesco stampato a Venezia nel 1477 col titolo Libro el quale se chiama introito e porta, consistente in un vero e proprio dizionario bilingue per mercanti e viaggiatori, con elenchi di parole suddivisi per settore.
 
L'Oriente medievale
Contemporaneamente la lessicografia fiorì anche in Oriente. In Cina il primo dizionario largamente diffuso fu lo Shuowen Jiezi pubblicato all'inizio del II secolo. Comprendeva la definizione di 9353 ideogrammi, di cui 1163 con due significati. fu con questa opera che venne introdotto l'ordine degli ideogrammi basato sui cosiddetti radicali. Intorno al 543 venne redatto lo Yupian, comprendente la pronuncia e la definizione di più di 12.000 ideogrammi. Nel 601 venne pubblicato il Qieyun con più di 16.000 ideogrammi.
 
Lo Amarakosha fu il primo lessico sanscrito, redatto da Amarasimha probabilmente nel IV secolo alla corte dei Gupta.
 
In giapponese il primo dizionario conosciuto, il Tenrei Bansho Meigi dell'835, accanto agli ideogrammi cinesi indicava solo la pronuncia on. Lo Shinsen Jikyo del 900 fu il primo dizionario a indicare la pronuncia kun di 21.000 caratteri cinesi.
 
In arabo il Lisan-al-Arab del XIII secolo ed il Qamus-al-Muhit del XIV secolo erano organizzati in base all'ordine alfabetico delle radici lessicali, non delle singole parole. Il primo accanto al significato forniva anche esempi di uso del vocabolo, il secondo, più maneggevole, si limitava ad indicare la definizione.
 
Gli esordi della lessicografia moderna
 
La prima edizione del Vocabolario dell'Accademia della Crusca (1612)
Solo ed esclusivamente grazie all'invenzione della stampa, nella metà del XV secolo, i dizionari, sia quelli plurilingui sia quelli monolingui, iniziarono ad avere grande diffusione. Una delle opere più note è il Dictionarium latinum dell'umanista bergamasco Ambrogio Calepio, pubblicato nel 1502, la cui fama fu tale che servì da modello a numerose altre opere dello stesso genere (il cosiddetto calepino, diventato in seguito un nome comune, col significato di “dizionario” o, usato scherzosamente, col significato di “compilazione erudita”). Nel 1531 Robert Estienne, appartenente ad una famiglia di tipografi e librai attivi a Parigi e Ginevra, e suo figlio Henri diedero rispettivamente alla stampe il Thesaurus Linguae Latinae e il Thesaurus Graecae Linguae. Nel 1771 venne pubblicato, postumo, il Totius latinitatis lexicon dell'abate Egidio Forcellini in quattro volumi.
 
Dalla Spagna proviene la prima grande realizzazione lessicografica di una lingua moderna: il "Tesoro della lingua spagnola" (Tesoro de la Lengua española, 1611) di Sebastián de Covarrubias. Subito dopo, a Venezia nel 1612 venne pubblicata la prima edizione del Vocabolario della Crusca, i cui compilatori s'ispirarono al fiorentinismo bembiano, ma temperato dalla concezione di Leonardo Salviati, e riuscirono nell'intento di restituire il primato linguistico al fiorentino del Trecento. Nonostante le polemiche e le discussioni per la sua impostazione eccessivamente selettiva e arcaizzante, alla fine del Seicento nessun'altra lingua moderna disponeva di un vocabolario paragonabile a quello dell'Accademia.
 
In Francia nel 1684 Antoine Furetière pubblicò l'Essai d'un dictionnaire universel, ma l'Académie française l'accusò di plagio e lo espulse, e fu pubblicato solo nel 1690, postumo nei Paesi Bassi. Successivamente il dizionario fu rielaborato e pubblicato dai Gesuiti di Trévoux con il titolo Dictionnaire universel français et latin; nel 1694, a Parigi, apparve il Dictionnaire de l'Académie française, dedicato a Luigi XIV, in due volumi. A differenza del Vocabolario della Crusca, pur riprendendone l'impianto complessivo, gli esempi erano frutto dell'invenzione dei compilatori e i termini erano raggruppati in famiglie. L'opera, del resto, nasceva in una situazione profondamente diversa, da un punto di vista storico-culturale, rispetto al dizionario fiorentino. Nella Francia del Seicento il modello era rappresentato non dalla lingua scritta degli autori dei secoli antichi, ma dalla lingua di conversazione, dall'uso parlato della corte e dei salotti letterari, che coincideva con la lingua letteraria del tempo: diversamente da quanto avveniva in Italia, s'aveva la consapevolezza di disporre di una lingua nel momento del suo massimo splendore, e di poter offrire esempi tratti dall'uso contemporaneo, senza dover ricorrere agli scrittori dei secoli passati.
 
Il primo dizionario della lingua portoghese, il Vocabulario portughez e latino, venne pubblicato dal chierico regolare Raphael Bluteau a Coimbra tra il 1712 e il 1721. Diversamente dal Dictionnaire de l'Accadémie française e dal Vocabolario della Crusca, registrava termini appartenenti alla scienza, alla tecnica, alle arti, accoglieva i prestiti europei ed extraeuropei, citando molti esempi tratti non solo dagli autori portoghesi, ma anche da quelli latini.
 
Tra il 1726 e il 1739 a Madrid apparve il Diccionario de la lengua castellana, a cura della Real Academia Española, basato sul modello letterario e puristico della terza edizione del Vocabolario della Crusca (1691) e su una larga registrazione di citazioni letterarie d'autori dal Duecento al Seicento.
 
In Inghilterra, nel 1604, Robert Cawdrey pubblicò la prima raccolta monolingue della lingua inglese, A Table Alphabeticall, contenente 2.500 parole difficili e oscure, chiarite attraverso brevi definizioni o sinonimi. Nel 1755 Samuel Johnson diede alle stampe A Dictionary of the English Language, che si fondava sull'autorità degli scrittori attivi fra l'età elisabettiana e la Restaurazione, e condivideva con il Vocabolario della Crusca, sul quale era modellato, l'impostazione puristica, la censura dei forestierismi non assimilati e l'abbondanza delle citazioni. Il dizionario inglese si distingueva nettamente dal modello cruscante per il carattere semienciclopedico e la larga accoglienza di parole tecniche. L'opera, inoltre, si rivolgeva non solo agli scrittori e gli intellettuali, ma anche alle persone comuni, i lettori che ricorrevano al dizionario per risolvere i propri dubbi linguistici.
 
Nel 1691 fece la sua comparsa in Germania il Der Teutschen Sprache Stammbaum und Fortwachs oder Teutscher Sprachschaltz (“Albero genealogico e sviluppo della lingua tedesca o Tesoro tedesco”), il primo dizionario tedesco moderno compilato dal poeta e filologo Kaspar Stieler.
 
Nel 1789 apparve postumo il Vocabolario napoletano-toscano del famoso economista Ferdinando Galiani. L'accademico della Crusca Michele Pasqualino nel 1790 pubblicò il proprio Vocabolario etimologico siciliano.
 
L'Ottocento
 
Un dizionario ottocentesco, il Policarpo Petrocchi (biblioteca dell'Accademia della Crusca)
Francesco Cherubini pubblicò nel 1814 il Dizionario milanese-italiano in due volumi e nel 1839-1843 il Vocabolario milanese-italiano in cinque volumi.
 
Nel 1828 uscì An American Dictionary of the English Language di Noah Webster, il primo dizionario dedicato specificamente all'american english.
 
Giuseppe Boerio pubblicò il suo Dizionario del dialetto veneziano, bilingue, nel 1829. La prima edizione del Nuovo dizionario siciliano-italiano di Vincenzo Mortillaro di Villarena uscì nel 1838.
 
Nel 1839-40 apparve il Diccionari de la llengua catalana ab la corresponencia castellana y llatina del padre Labèrnia. Basilio Puoti redasse il Vocabolario domestico napoletano e toscano nel 1841.
 
La prima edizione di A Greek-English Lexicon di Liddell e Scott uscì nel 1843.
 
Nel 1851 Giovanni Casaccia pubblicò il Dizionario genovese-italiano, che stabilì anche la grafìa per lungo tempo seguìta di questa lingua. Non era il primo dizionario di genovese ma divenne rapidamente quello più seguito. Nello stesso anno uscì anche il Vocabulariu sardu-italianu et italianu-sardu di Giovanni Spano. Per quanto riguarda il piemontese, benché preceduto da altri dizionari (con l'italiano; con il francese; con italiano, francese e latino) viene considerato "classico" il Gran dizionario piemontese di Vittorio di Sant'Albino (1859).
 
Vladimir Ivanovič Dahl pubblicò il suo Dizionario ragionato della lingua grande-russa vivente fra il 1863 ed il 1866.
 
In francese nel corso dell'Ottocento uscirono molti dizionari in cui veniva lasciato maggiore spazio al lessico scientifico e tecnico, quali quelli di Charles Nodier (1823), di Napoléon Landais (1834), di Louis-Nicolas Bescherelle (1856). Ma il più importante dizionario francese del secolo rimane il Littré (pubblicato fra il 1863 ed il 1872).
 
In italiano l'opera più famosa e duratura del secolo fu il Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo, edito fra il 1861 ed il 1873.
 
Il rinnovatore della poesia provenzale Frédéric Mistral redasse fra il 1878 ed il 1886 Lou Tresor dòu Felibrige, dizionario bilingue provenzale-francese, che rimane tuttora la maggiore opera lessicografica su questa lingua.
 
Infine, a cavallo fra Otto e Novecento furono pubblicate le grandi opere lessicografiche nelle lingue germaniche. Nel 1838 i Fratelli Grimm iniziarono la pubblicazione del Deutsches Wörterbuch, la più completa opera lessicografica per il tedesco, il cui primo volume apparve nel 1858 e che fu completata solo nel 1961.
 
Per l'olandese iniziò nel 1863 il grande progetto del Woordenboek der Nederlandsche Taal terminato solo nel 1998. Pubblicata dall'Instituut voor Nederlandse Lexicologie, quest'opera (il più esteso lessico di una lingua moderna) comprende tutti i vocaboli olandesi dal 1500 al 1921.
 
Nel 1888 uscì il primo fascicolo della prima edizione dell' Oxford English Dictionary, terminato nel 1921, la maggiore opera lessicografica relativa all'inglese.
 
Nel 1898 fu edito il primo volume dello Svenska Akademiens ordbok la cui pubblicazione è ancora in corso, il maggior vocabolario della lingua svedese.
 
Il Novecento
 
Dizionari di italiano moderni
Benché abbia visto apparire le edizioni aggiornate di molte opere storiche, nonché la nascita di nuovi lessici scientifici, il XX secolo si caratterizza soprattutto per la diffusione dei dizionari in un solo volume, presenti in molte case, che diventano antonomastici in ogni lingua per indicare il dizionario. Per l'italiano è possibile citare lo Zingarelli e il Devoto-Oli. Fuori dai confini nazionali si possono ricordare il Duden per il tedesco, Le Petit Robert per il francese, il Vox per lo spagnolo.
 
Nel corso del Novecento è da segnalare anche un'abbondante produzione di dizionari relativi ai dialetti tedeschi.
 
Il Duemila
Nel nuovo millennio si affermano i dizionari telematici, quale il Wikizionario.
 
 


#158 Guest_deleted32173_*

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Inviato 16 maggio 2017 - 05:35

Motore
 
4-Stroke-Engine.gif
 
Uno dei primi motori come viene inteso oggi fu la macchina a vapore, in cui viene prodotto del vapore d'acqua surriscaldato in una caldaia che poi, espandendosi in un cilindro, produce una spinta su un pistone. Tale moto, reso alternativo con altri accorgimenti meccanici, può essere trasferito a una ruota o ad un volano attraverso un meccanismo biella-manovella, in modo da rendere possibile il movimento del veicolo. Nel corso del XIX secolo le navi a vapore sostituirono i velieri e verso la fine dello stesso secolo lo sviluppo del motore a combustione interna rese possibile il grande sviluppo dell'industria automobilistica e, in seguito, la nascita dell'industria aeronautica.
 
Dopo la seconda guerra mondiale, l'impiego per il volo aeronautico richiese lo sviluppo dei motori a getto, mentre la nascita del volo spaziale permise il grande sviluppo dei motori a razzo e, in particolare del motore a razzo chimico.
 
Negli ultimi anni, le esigenze del volo interplanetario stanno guidando la ricerca verso nuove soluzioni, in particolare nel campo dei motori a razzo a propulsione non chimica come le vele spaziali.
 
Nel campo dei motori per applicazioni automobilistiche, la ricerca è invece fortemente orientata verso soluzioni che riducano i consumi e le emissioni di sostanze inquinanti nell'ambiente.
 
Classificazione dei motori
Motore termico
Motore a combustione interna
Motori volumetrici (il fluido motore agisce in maniera intermittente) (Motore a pistoni)
movimento alternativo
Motore ad accensione comandata, detto anche motore a scoppio (vedi anche ciclo Otto e carburazione)
Motore ad accensione spontanea o Motore Diesel (vedi anche ciclo Diesel e motore a iniezione)
Motore NEVIS (Ciclo Bortone), si caratterizza per l'assenza dell'uso della biella, sostituita da un sistema camma
Motore Bourke
Motore stellare, in passato applicato sugli aerei ad elica
Motore a 6 fasi isovolumetrico, si caratterizza per l'assenza dell'uso della biella, sostituita da un sistema camma
Motore a pistoni opposti
Motore a pistoni oscillanti
Motore assiale
movimento rotativo
Motore Wankel
Quasiturbina
Motore trochilico
Motore toroidale
Motore Britalus
Ciclo termico
Motore a due tempi
Motore a quattro tempi
Motore ibrido a due/quattro tempi
Diesotto
Motore a cinque tempi
Motore a sei tempi
Motore a sette tempi, tipologia di motore mai applicata nella realtà
Motori continui (il fluido motore agisce in maniera continua)
Motore a reazione
Motore a getto (anche detto esoreattore, utilizzo dell'aria esterna come comburente)
Motoreattore
Turboreattore
Turboventola (o turbofan)
turboalbero
Turboelica
propfan
Statoreattore
Pulsoreattore
Motore a getto preraffreddato
Motore a razzo (anche endoreattore, comburente interno)
Motore a razzo chimico
Aerospike
Reazione non chimica
Motore a ioni
Motore a fotoni
Motore al plasma
Motore nucleare
In base a posizione
Motore anteriore
Motore posteriore
Motore posteriore-centrale
Motore a combustione esterna
Motore a vapore (vedi anche ciclo Rankine)
Motore alternativo a vapore
Turbina a vapore
Motore Stirling
Motore rotativo a combustione esterna
Motore elettrico
Motore in corrente continua
Motore brushless
Motore passo passo
Motore in corrente alternata
Motore sincrono brushless
Motore sincrono
Motore asincrono
Motore monofase
Motore trifase
Altri tipi di motori
Cella a combustibile
turbina idraulica
motore ad aria compressa
motore a molla
motore molecolare (ambito biologico invece che meccanico)
Disposizione
Il motore può essere disposto:
 
Longitudinale, quando il motore è disposto perpendicolarmente all'albero finale di rotazione che aziona o più in generale è parallelamente/assialmente allo spostamento lineare generato da esso
Trasversale, quando il motore è disposto parallelamente all'albero finale di rotazione che aziona o più in generale è perpendicolare allo spostamento lineare generato
 
 


#159 Guest_deleted32173_*

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Inviato 23 maggio 2017 - 05:26

Metro
 
1280px-ReglaMedida.svg.png
 
Coniato come termine nel 1675 da Tito Livio Burattini (al quale si deve un primo tentativo di definizione basato sulla lunghezza di un pendolo che batte il secondo, dato che il semiperiodo di un pendolo di tale lunghezza è 1,003 s), la definizione originale del metro basata sulle dimensioni della Terra viene fatta risalire al 1791, stabilita dall'Accademia delle scienze francese come 1/10 000 000 della distanza tra polo nord ed equatore, lungo la superficie terrestre, calcolata sul meridiano di Parigi.
 
Il 7 aprile 1795 la Francia adottò il metro come unità di misura ufficiale, ma l'incertezza nella misurazione della distanza portò il Bureau international des poids et mesures (BIPM) a ridefinire nel 1889 il metro come la distanza tra due linee incise su una barra campione di platino-iridio conservata a Sèvres presso Parigi. Una copia di tale campione, in Italia, è conservato presso l'Istituto nazionale di ricerca metrologica di Torino, nato dall'unione dell'ex Istituto metrologico Gustavo Colonnetti (IMGC-CNR) e dell'ex Istituto elettrotecnico nazionale Galileo Ferraris (IEN).
 
Prima però della ridefinizione del 1889, e anche prima dell'unificazione, il metro venne per la prima volta introdotto in Italia da parte di Napoleone durante la campagna d'Italia del 1796. Da allora, nonostante svariate resistenze politiche, esacerbatesi durante il Congresso di Vienna, il metro non abbandonò più la penisola italiana, anche se venne adottato dagli stati italiani in tempi e secondo percorsi diversi.
 
 
La barra di platino-iridio utilizzata come campione del metro dal 1889 al 1960
Il metro divenne la base ufficiale del sistema di misure del Regno d'Italia durante l'estate del 1861.
 
Nel 1960, con la disponibilità dei laser, l'undicesima Conferenza generale di pesi e misure cambiò la definizione del metro in: la lunghezza pari a 1 650 763,73 lunghezze d'onda nel vuoto della radiazione corrispondente alla transizione fra i livelli 2p10 e 5d5 dell'atomo di kripton-86.
 
Nel 1983 la XVII Conferenza generale di pesi e misure definì il metro come la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in 1/299 792 458 di secondo (ovvero la velocità della luce nel vuoto venne definita essere 299 792 458 metri al secondo). Poiché si ritiene che la velocità della luce nel vuoto sia la stessa ovunque, questa definizione è più universale della definizione basata sulla misurazione della circonferenza della Terra o della lunghezza di una specifica barra di metallo e il metro campione può essere riprodotto fedelmente in ogni laboratorio appositamente attrezzato. L'altro vantaggio è che può (in teoria) essere misurato con precisione superiore rispetto alla circonferenza terrestre o alla distanza tra due punti.
 
Sempre grazie agli esperimenti in laboratorio, dalla fine del 1997 è possibile raggiungere un ordine di accuratezza dell'ordine di 10−10 m. Questo risultato è ottenibile sfruttando la relazione λ = c/ν (λ lunghezza d'onda, c velocità della luce, ν frequenza della radiazione) utilizzando oscillatori laser stabilizzati a frequenza conosciuta (imprecisione Δν/ν migliore di 10−10) la cui radiazione viene utilizzata in sistemi di misura interferometrici.
 
In Italia il Decreto del Presidente della Repubblica n. 802 del 12 agosto 1982 ha recepito la Direttiva 80/181/CEE relativa alle unità di misura stabilendo «le unità di misura legali da utilizzare per esprimere grandezze»; nell'allegato, per la Lunghezza viene indicato il metro, definito come «lunghezza del tragitto percorso dalla luce nel vuoto in un intervallo di 1/299792458 di secondo».
 
Multipli e sottomultipli
Utilizzando i prefissi SI si ottengono i seguenti multipli e sottomultipli (in corsivo i multipli e sottomultipli non ricavati con uso di prefissi o non facenti parte del Sistema internazionale di unità di misura):
 
denominazione simbolo corrispondenza I corrispondenza II corrispondenza III Esempio
yottametro Ym 1024 m 1 000 000 000 000 000 000 000 000 m 1 000 000 000 000 000 000 000 000/1 Distanze intergalattiche
zettametro Zm 1021 m 1 000 000 000 000 000 000 000 m 1 000 000 000 000 000 000 000/1 Grandezza di una galassia
exametro Em 1018 m 1 000 000 000 000 000 000 m 1 000 000 000 000 000 000/1 Distanze interstellari
petametro Pm 1015 m 1 000 000 000 000 000 m 1 000 000 000 000 000/1
terametro Tm 1012 m 1 000 000 000 000 m 1 000 000 000 000/1 Circa la distanza tra il Sole e Saturno
gigametro Gm 109 m 1 000 000 000 m 1 000 000 000/1 Circa 3 volte la distanza tra la Terra e la Luna
megametro Mm 106 m 1 000 000 m 1 000 000/1 Percorso da Milano a Brindisi
miriametro Mm 104 m 10 000 m 10 000/1 Diametro di una grande città
chilometro (o kilometro) km 103 m 1 000 m 1000/1 Grandezza di un paese
ettometro hm 102 m 100 m 100/1 Circa altezza del grattacielo Pirelli, uno dei più alti d'Italia
decametro dam 101 m 10 m 10/1 Grandezza di una casa
metro m 1 1m 1/1m Distanza approssimativa tra i due pollici, a braccia distese
decimetro dm 10−1 m 0,1 m 1/10 m Grandezza del palmo di una mano
centimetro cm 10−2 m 0,01 m 1/100 m Spessore di un dito
millimetro mm 10−3 m 0,001 m 1/1 000 m Spessore di una unghia
micrometro (o micron) μm 10−6 m 0,000001 m 1/1 000 000 m Diametro di un microbo
nanometro nm 10−9 m 0,000000001 m 1/1 000 000 000 m Grandezza degli elementi dei microprocessori
ångström Å 10−10 m 0,0000000001 m 1/10 000 000 000 m Diametro di un atomo di ossigeno
picometro pm 10−12 m 0,000000000001 m 1/1 000 000 000 000 m
femtometro (o fermi) fm 10−15 m 0,000000000000001 m 1/1 000 000 000 000 000 m Raggio del protone o neutrone
attometro am 10−18 m 0,000000000000000001 m 1/1 000 000 000 000 000 000 m Grandezza del quark
zeptometro zm 10−21 m 0,000000000000000000001 m 1/1 000 000 000 000 000 000 000 m
yoctometro ym 10−24 m 0,000000000000000000000001 m 1/1 000 000 000 000 000 000 000 000 m Grandezza del neutrino
ReglaMedida.svg
 
Il picometro è comunemente usato nella misura di distanze su scala atomica; il diametro di un atomo è compreso circa tra 30 e 600 pm. È uguale a un milionesimo di micron ed era chiamato micromicron, stigma o bicron. Una volta era utilizzato il simbolo µµ.
 
Lo yottametro potrebbe essere utilizzato per misurare distanze intergalattiche, ma gli astronomi sono da tempo abituati ad utilizzare anni luce e parsec e continuano a preferirli.
 
Alcune lunghezze
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Ordini di grandezza (lunghezza).
Lunghezza Equivalente in metri
Distanza media della Terra dalla più vicina delle grandi galassie (Andromeda M31) 2 × 1022 
Diametro della nostra galassia 8 × 1020 
Distanza media tra la Terra e la stella più vicina (Proxima Centauri, escluso il Sole) 4 × 1016 
Distanza media tra la Terra e il Sole (= 1 UA) 1,5 × 1011 
Raggio medio della Terra 6,37 × 106 
Diametro di un globulo rosso 8 × 10−6 
Diametro di un atomo di ossigeno 1 × 10−10 
Diametro di un protone 2 × 10−15 
Diametro di un elettrone 1 × 10−22 
 
 


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Inviato 30 maggio 2017 - 06:20

Led
 
Red_led_x5.jpg
 
LED a due colori
Nel 1907, Henry Joseph Round pubblicò una breve descrizione dell'effetto luminoso del diodo. Venti anni dopo, Oleg Losev indagò il fenomeno e formulò una teoria in una pubblicazione russa.
 
I primi diodi a emissione luminosa erano disponibili solo nel colore rosso. Venivano utilizzati come indicatori nei circuiti elettronici, nei display a sette segmenti e negli optoisolatori. Successivamente, ne vennero sviluppati alcuni che emettevano luce gialla e verde e vennero realizzati dispositivi che integravano due LED, generalmente uno rosso e uno verde, nello stesso contenitore permettendo di visualizzare quattro stati (spento, verde, rosso, verde+rosso=giallo) con lo stesso dispositivo.
 
Ora esistono LED, i cosiddetti "bicolore", che integrano nello stesso corpo due diodi LED in antiparallelo, ciascuno di diverso colore; in questo modo, per variare la colorazione del LED, è sufficiente alimentarlo con polarità opposta. L'unico problema è che LED di colore diverso necessitano di correnti (If) diverse per produrre una determina intensità luminosa; quindi, ad esempio, in un LED bicolore rosso / verde, il verde avrà un'intensità luminosa minore di quella del rosso, a parità di corrente.
 
Negli anni novanta, vennero realizzati LED con efficienza sempre più alta e in una gamma di colori sempre maggiore, fino a quando, con la realizzazione di LED a luce blu, fu possibile realizzare dispositivi che potevano generare qualsiasi colore integrando tre diodi di colore rosso, verde e blu. Parallelamente, è aumentata la quantità di luce emessa a livelli competitivi con quelli delle comuni lampadine. Nell'illuminotecnica, il LED si configura come una tecnologia ad alta efficienza che garantisce un ottimo risparmio energetico.
 
Funzionamento
I LED sono un particolare tipo di diodi a giunzione p-n, formati da un sottile strato di materiale semiconduttore. Gli elettroni e le lacune vengono iniettati in una zona di ricombinazione attraverso due regioni del diodo drogate con impurità di tipo diverso, e cioè di tipo n per gli elettroni e p per le lacune.
 
Quando sono sottoposti ad una tensione diretta per ridurre la barriera di potenziale della giunzione, gli elettroni della banda di conduzione del semiconduttore si ricombinano con le lacune della banda di valenza rilasciando energia sufficiente sotto forma di fotoni. A causa dello spessore ridotto del chip un ragionevole numero di questi fotoni può abbandonarlo ed essere emesso come luce ovvero fotoni ottici. Può essere visto quindi anche come un trasduttore elettro-ottico.
 
 
Simbolo circuitale del LED
Il colore o frequenza della radiazione emessa è definito dalla distanza in energia tra i livelli energetici di elettroni e lacune e corrisponde tipicamente al valore della banda proibita del semiconduttore in questione. L'esatta scelta dei semiconduttori determina dunque la lunghezza d'onda dell'emissione di picco dei fotoni, l'efficienza nella conversione elettro-ottica e quindi l'intensità luminosa in uscita. I LED possono essere formati da GaAs (arseniuro di gallio), GaP (fosfuro di gallio), GaAsP (fosfuro arseniuro di gallio), SiC (carburo di silicio) e GaInN (nitruro di gallio e indio).
 
Anche se non è molto noto, i LED colpiti da radiazione luminosa nello spettro visibile, infrarosso o ultravioletto, a seconda del LED utilizzato come ricevitore, producono elettricità esattamente come un modulo fotovoltaico. I LED di colore blu e infrarosso producono tensioni considerevoli. Questa particolarità rende possibile l'applicazione dei LED per sistemi di ricezione di impulsi luminosi. Intorno a questa proprietà sono stati sviluppati molti prodotti industriali come sensori di distanza, sensori di colore, sensori tattili e ricetrasmettitori. Nel campo dell'elettronica di consumo il sistema di comunicazione irDA è un buon esempio proprio perché sfrutta appieno questa particolarità.
 
Il LED ha una durata molto variabile a seconda del flusso luminoso, della corrente di lavoro e della temperatura d'esercizio.
 
 






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